Il laser dell’antichità
Secondo le fonti Archimede usò un grande disco di bronzo che rifletteva la luce del sole: ma potevano le navi nemiche essere incendiate in questo modo?
Era un’illusione ottica
215 a.C., siamo in piena seconda guerra punica. Mentre le truppe romane di terra coordinate da Claudio Marcello accerchiano rapidamente Siracusa, le triremi repubblicane si dispongono davanti all’Acràdina, la cinta muraria costiera della città siciliana. Una mattina Claudio Marcello decide di attaccare, ma a non più di trecento braccia dalla riva siracusana avviene il finimondo: una dopo l’altra, per ragioni inspiegabili, le velature di bordo vanno a fuoco, mentre raggi accecanti si riverberano sugli allibiti equipaggi di Claudio Marcello. L’attacco si trasforma in un indescrivibile putiferio; intanto dalle mura dell’Acràdina, lo scienziato Archimede assiste al risultato dei suoi misteriosi esperimenti.
Le fonti narrano che furono gli specchi ustori inventati da Archimede la causa dell’incendio delle vele, ma gli storici e gli scienziati moderni hanno a questo proposito sfatato la leggenda. In realtà gli assedianti “credettero” di essere incendiati dal sole, mentre ciò era solo un’illusione ottica. Lo specchio di Archimede proiettava veramente una luce accecante contro la trireme, e subito dopo la velatura della nave prendeva fuoco: ma prendeva fuoco davvero per via di quella luce accecante? O non piuttosto perché una falarica incendiaria (il pesante giavellotto intriso di pece, zolfo e olio incendiario scagliato da una macchina da guerra), o una catapulta caricata con il fuoco greco (una miscela incendiaria di zolfo, pece e salnitro), centrava in quello stesso momento la velatura della trireme?
L’esperimento di Osimo
Alcuni anni fa a Osimo, si orientarono 450 specchi piani, ognuno del diametro approssimativo di 445 centimetri quadrati, (cioè circa 20 metri di superficie radiante complessiva), in direzione di una vela di un modello di antica trireme romana. La vela prese fuoco davvero, infatti era stata sottoposta a un aumento di 675 gradi centigradi. Questo esperimento ha dimostrato che la reale funzionalità dello specchio ustorio di Archimede non è da porsi in discussione. Ma l’apparato costruito a Osimo avrebbe funzionato allo stesso modo su una vera grande trireme? Le masse d’aria fredda non si sarebbero frapposte in maniera negativa tra il congegno e la nave, che si trovava a considerevole distanza? E, soprattutto, l’arretratissima tecnologia del III secolo a.C. avrebbe permesso di convogliare in una sola direzione ben 450 specchi? E gli specchi di 2200 anni fa sarebbero stati in grado di riflettere la luce senza disperderla? Gli specchi che abbiamo trovato negli scavi sono talmente rudimentali da farci dubitare persino che potessero riflettere immagini non deformate.
Lo specchio era un mirino ottico
A questo punto si obbietterà: ma se la trireme veniva incendiata da pece accesa o da fuoco greco lanciato da una falarica, che legame può avere questo con lo specchio puntato contro la nave? Archimede voleva incendiare le navi nemiche e intanto frastornare l’assediante abbagliandolo? Può essere: ma, con ogni probabilità, Archimede era andato molto oltre, e quel grande specchio di due o tre metri di diametro, quel disco di bronzo che accecava il nemico riflettendogli contro la luce del sole, aveva una funzione ben altrimenti precisa. Era un congegno di puntamento, un mirino ottico. Così accadeva dunque che i marinai, abbagliati dalla luce, pochi secondi dopo vedevano la velatura andare a fuoco: avendo scarsissime cognizioni circa la rapida presa del fuoco greco, collegavano l’incendio allo specchio puntatore che in quel momento li stava abbagliando e non alla falarica che li aveva bersagliati. Ne traevano dunque la convinzione che Archimede avesse inventato uno specchio concavo in grado di mandarli arrosto per pura e semplice energia solare.
La caduta di Siracusa
Comunque, anche se lo scompiglio gettato da Archimede tra le triremi repubblicane fu dovuto effettivamente all’impiego strategico della micidiale miscela incendiaria, ciò non impedì a Claudio Marcello dopo tre anni di assedio (215-212 a.C.) di espugnare Siracusa.
La versione tramandataci della caduta di Siracusa è probabilmente una leggenda. Un legionario, di cui non è stato tramandato il nome, riuscì a trovare nelle mura siracusane un passaggio segreto che comunicava con i sotterranei dell’Acràdina, lo riferì al suo superiore Mérico, che fece una rapida sortita nel punto indicato.
Poi, salito con la sua centuria sui bastioni momentaneamente sguarniti, si mise a chiamare a gran voce i commilitoni rimasti fuori. I Siracusani, ingannati dal clamore, credettero che i Romani fossero riusciti a penetrare dal forte Eurialo, un bastione munitissimo difeso da ogni tipo di macchina da guerra, e si riversarono sull’Acràdina lasciando sguarnito l’interno: ciò permise a Mérico di aprire le porte della città senza difficoltà.