La paura in Occidente - Introduzione
La peur en Occident
Significato e fortuna dell’opera
Nonostante la chiara evidenza della presenza della paura nei comportamenti umani fin dai tempi primitivi, lo studio della paura ha ben pochi precedenti1; le ragioni di questo vuoto storiografico risiedono, secondo Delumeau, nel fatto che la paura è sempre stata ritenuta un sentimento negativo, imbarazzante, di cui provare vergogna e pertanto si sia preferito raccontare, ed esaltare, soltanto il coraggio e l’eroismo2.
Le coordinate geografiche e temporali della ricerca sono individuate nell’Europa tra il Quattrocento e il Seicento. La scelta di questo intervallo cronologico nasce dal fatto che proprio in questi secoli si verificarono alcune tra le catastrofi peggiori della storia europea, in primo luogo la tragica epidemia di peste del 1348, che determinarono uno stato di insicurezza generale e costante particolarmente forte.
Descrivendo l’onnipresenza della paura, soprattutto nelle campagne (si aveva paura della notte, del mare, degli spiriti, dei malefici, delle stelle, delle comete, delle eclissi, della peste, del fisco, della carestia, degli ebrei, dei Turchi, dei bestemmiatori, degli eretici, degli stregoni ecc.), Delumeau dimostra come la paura abbia giocato un ruolo preponderante nella maggior parte delle rivolte avvenute in Europa dal XIV al XVII secolo. La paura incontrollata di un pericolo reale, parzialmente immaginario, o totalmente illusorio (ma non avvertito come tale), ha suscitato nelle folle comportamenti spesso irrazionali. È il caso, narrato nell’opera, di quei contadini francesi minacciati dalla peste nel XVI secolo che, temendo di morire per il contagio e di non essere poi seppelliti, si scavavano la propria fossa e si tiravano addosso la terra per soffocarsi3.
Dal punto di vista storiografico, l’opera si distingue soprattutto per il fatto di utilizzare i contributi e le scoperte provenienti da due discipline relativamente giovani come la psicologia e la psichiatria, applicandoli all’arco di tempo in esame (XIV-XVIII secolo).
Il ruolo dello storico, quindi, è quello di «operare la doppia trasposizione dal singolare al plurale e dall’attuale al passato »4: cioè lo studioso, con l’ausilio delle teorie scientifiche, comprende attraverso elaborazioni di casi individuali (singolare) fenomeni collettivi (plurale) e analizza grazie a categorizzazioni recenti, frutto degli ultimi sviluppi delle discipline scientifiche (attuale), avvenimenti e problemi lontani nel tempo (passato). Delumeau, inoltre, segue il pensiero del padre fondatore della nuova storiografia francese, Bloch, sostenendo che i fatti storici sono per la loro essenza fatti psicologici5 e sceglie di autodefinirsi uno «storico dei sentimenti ».
L’autore si distanzia, invece, dalla storiografia quantitativa (portata al successo da Le Roy Ladurie solo pochi anni prima con Les paysans de Languedoc e Montaillou, village occitan de 1294 à 1324), e sceglie un metodo puramente qualitativo – in cui utilizza un'ampia varietà di fonti storiche, letterarie e iconografiche (dipinti e romanzi esemplari dell’epoca, memorie, preghiere, oggetti d’arte religiosa ecc.) – poiché ritiene che «delle quantificazioni interminabili [...] avrebbero qui impedito di vedere gli elementi d’insieme e avrebbero reso irrealizzabili i raffronti»6.
Delumeau lascia intravedere attraverso il testo anche una propria personale fi losofia della storia, basata sulla convinzione che la storia non si ripeta attraverso i secoli e che «l’umanità sia costantemente chiamata a cambiar rotta, a correggere la propria strada, a inventare il proprio itinerario in funzione degli ostacoli incontrati »7.
Il saggio è stato pensato, fin dall’inizio delle ricerche, in rapporto diretto con l’opera successiva, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo (Le péché et la peur. La culpabilisation en Occident. XIIIe-XVIIIe siècles), pubblicato nel 1983.
Spostando indietro il termine a quo delle ricerche (l’analisi inizia, infatti, nel 1215, anno in cui il IV Concilio Lateranense stabilisce il dovere di confessarsi almeno una volta all’anno), Delumeau prosegue la sua indagine sul ruolo della paura nella storia considerando il processo di ipercolpevolizzazione dell’uomo. Nella situazione di angoscia globale descritta ne La paura in Occidente, si origina nell’uomo una nuova, ulteriore paura: la paura di sé in quanto peccatore incline al male.
1- Delumeau cita G. Lefebvre, La grande paura del 1789, 1953; G. Ferrero, Pouvoir: les génies invisibles de la cité, 1942 e, soprattutto, L. Febvre, Pour l’histoire d’un sentiment: le besoin de sécurité, 1956.
2- Descrivendo le ragioni che lo hanno portato a intraprendere questo studio, l’autore ricorda un episodio della propria infanzia, ritenendo che ogni ricerca storica sia in una certa misura anche una introspezione personale. A dieci anni, la morte improvvisa durante la notte del farmacista del paese, dopo averlo visto poche ore prima in visita dai genitori, lo gettò in un tale stato di prostrazione e terrore da costringerlo a saltare la scuola per più di tre mesi; conobbe in quel momento la paura viscerale e destabilizzante. Cfr. J. Delumeau, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata, SEI, Torino 1979, p. 41 (ed. or. La peur en Occident. XIVe-XVIIIe siècles, Fayard, Parigi 1978).
3- Cfr. ivi, p. 185.
4- Cfr. ivi, p. 35.
5- Attraverso la definizione dei fatti storici come fatti psicologici che «in altri fatti psicologici trovano normalmente i loro antecedenti», Bloch – e successivamente Delumeau – intende porre l’accento sull’importanza che la dimensione psicologica riveste in ogni comportamento umano. Questo ovviamente non significa trascurare nell’indagine storica gli altri fattori (ambientali, sociali, economici ecc.), ma semplicemente sottolineare il valore dei sentimenti nell’agire degli uomini. Cfr. M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1998, p. 140.
6- Cfr. J. Delumeau, La paura in Occidente, cit., p. 40.
7- Cfr. ibidem.
Struttura dell’opera
La paura in Occidente è strutturata in due parti: nella prima, intitolata Le paure della massa, vengono descritte le paure spontanee, provate da larghi strati della popolazione senza distinzioni di classe né, almeno parzialmente, di epoche; la seconda parte, La cultura delle classi dirigenti e la paura, tratta invece delle paure riflesse, «che sgorgano cioè da un atteggiamento d’indagine sulla sofferenza guidato dai direttori di coscienza della collettività, quindi anzitutto dagli uomini di Chiesa»8. Le paure spontanee sono a loro volta suddivise in due gruppi: le paure permanenti, legate a un determinato livello di sviluppo tecnico, e le paure cicliche, causate da un avvenimento funesto limitato nel tempo ma ricorrente.
Tra le paure comuni a tutti i popoli europei vi è quella del mare. Se per alcuni, pochissimi, l’infinita distesa marina rappresentava uno stimolo e una provocazione, per la maggior parte degli uomini era il luogo per eccellenza della paura, come dimostrano i numerosi proverbi creati fin dall’antichità («Loda il mare e tienti a terra », dicevano i Romani).
«Le popolazioni costiere, per esempio in Bretagna, paragonavano il mare infuriato a un cavallo senza cavaliere, o che salta fuori dal recinto, oppure a una giumenta scatenata. La tempesta non era quindi considerata – e vissuta – come un fenomeno naturale: si supponeva che all’origine della sua violenza vi fossero streghe e demoni. Dal momento che, nel 1589-1591, la violenza dei flutti aveva impedito per diverse volte al re Giacomo di Scozia e alla principessa Anna di attraversare il Mare del Nord, si scoprì che streghe e demoni avevano gettato un incantesimo sul mare annegandovi un gatto. In tutte le coste settentrionali dell’Europa, come pure nei Paesi baschi, era diff uso il racconto delle “Tre Onde” alte come torri e bianche come la neve, che erano in realtà tre mogli di marinai diventate streghe e trasformatesi in onde per vendicarsi dei mariti infedeli.»9 Tra le paure cicliche della massa, la paura della peste compare «implacabilmente ricorrente»10. Al di là della terribile epidemia del 1348, infatti, la peste devasta le regioni europee tra il XIV e il XVIII secolo con una periodicità quasi inimmaginabile; il morbo diventa più sporadico e localizzato solo a partire dalla metà del Seicento e scompare poi nel 1721. Fino al Settecento, pertanto, le popolazioni e le classi dirigenti – terrorizzate allo stesso modo di fronte alla pestilenza – cercano di trovare delle motivazioni all’aggressione di cui sono vittime.
«Tre spiegazioni venivano formulate nel per spiegare le epidemie di peste: una dai sapienti, l’altra dalla massa anonima, la terza insieme dalla massa e dalla Chiesa; la prima attribuiva l’epidemia a una corruzione dell’aria, provocata a sua volta sia da fenomeni celesti (apparizioni di comete, congiunzioni di pianeti ecc.), sia da diverse emanazioni putride, sia dalle due cose insieme. La seconda consisteva in un’accusa: dei propagatori di contagio spargevano appositamente la malattia, bisognava cercarli e punirli. La terza affermava che Dio, irritato dai peccati di un intero popolo, aveva deciso di vendicarsi; bisognava dunque placare la sua ira facendo penitenza. [...] Tuttavia le pratiche individuali non erano sufficienti: dato che un’intera città era ritenuta colpevole, si sentiva il bisogno di preghiere collettive e di pubbliche penitenze, la cui umanità e l’aspetto, se posso dirlo, quantitativo, avrebbero potuto forse commuovere l’Altissimo.»11
Il sottotitolo dell’opera, La città assediata, è una metafora riferita alla Chiesa cattolica – intesa come centro di potere e non come religione e religiosità12 – tra il Quattrocento e il Seicento. La Chiesa vive la percezione di essere assediata in quanto numerose minacce, in primo luogo lo scisma protestante e i movimenti ereticali, ne minano la stabilità. Tra le insidie, vere o presunte, temute dalla Chiesa vi sono gli ebrei, considerati inviati di Satana e utilizzati come capri espiatori in ogni circostanza negativa (epidemie di peste, crisi fi nanziarie ecc.).
«Due capi d’accusa principali hanno alimentato l’antisemitismo di un tempo: l’accusa di usura, venuta dal popolino e dagli ambienti mercantili, e quella di deicidio inventata e instancabilmente ripetuta dagli ambienti ecclesiastici, che considerano un’evidenza la responsabilità collettiva del popolo che aveva crocifisso Gesù. [...] Questa denuncia teologica non cessò di ampliarsi dalle crociate fino al XVII secolo (incluso) invadendo il teatro, l’iconografia, le prediche e innumerevoli catechismi. Essa diede all’antisemitismo economico, le cui manifestazioni erano spesso locali e spontanee, una giustificazione teorica, non foss’altro per i trenta denari del tradimento. [...] Ostinati nel loro peccato [gli ebrei], continuavano ad aggiungere al loro crimine iniziale quello della resistenza; meritavano dunque le punizioni a catena che subivano e che si sarebbero arrestate soltanto alla fine dei tempi, e specialmente meritavano quelle espulsioni continue da un luogo all’altro che fecero nascere la leggenda dell’“Ebreo errante”.»13
8- Cfr. ivi, p. 36.
9- Cfr. ivi, pp. 62-63.
10- Cfr. ivi, p. 156.
11- Cfr. ivi, pp. 196 e 207.
12- Delumeau affronta le numerose problematiche che toccano il cristianesimo oggi (il rapporto con la scienza, la parità tra uomo e donna, il dialogo con le altre religioni ecc.) in varie opere, tra cui nel 1977 il saggio dal titolo provocatorio Il cristianesimo sta per morire? (Le Christianisme va-t-il mourir?) e nel 2003 Scrutando l’aurora. Un cristianesimo per domani (Guetter l’aurore. Un christianisme pour demain), sempre distinguendo però tra la Chiesa come istituzione terrena e il cristianesimo come religione.
13- Cfr. J. Delumeau, La paura in Occidente, cit., p. 443.