Sommario
Leggere un classico
Scritti sulla questione meridionale

Scritti sulla questione meridionale


L'autore
Gaetano Salvemini

Gaetano Salvemini nasce a Molfetta, una cittadina sulla costa pugliese a pochi chilometri da Bari, l’8 settembre 1873. Di famiglia modesta dal punto di vista economico (il padre è un piccolissimo proprietario terriero), viene inizialmente seguito negli studi da uno zio sacerdote e in seguito si iscrive al seminario di Molfetta.

Nel 1894 si trasferisce a Firenze per frequentare l’Istituto di Studi Superiori e di Perfezionamento (oggi Università degli Studi); nel capoluogo toscano il giovane Salvemini entra in contatto con una realtà completamente diversa da quella pugliese ed è portato a riflettere sulle condizioni della propria regione natale e del Meridione in genere, desideroso di apportare dei miglioramenti concreti.

A Firenze Salvemini si avvicina ancor più che in passato alla politica attiva; iscritto al Partito Socialista Italiano fin da giovanissimo si fa notare durante le riunioni per lo spirito indipendente e per le prese di posizione coraggiose e controcorrente. Salvemini critica spesso le direttive ufficiali del partito, che ritiene danneggino il proletariato meridionale a favore di quello settentrionale; ricorda, infatti: «Il proletariato del Sud non aveva voto. Avrebbe dovuto soccorrerlo per la conquista del voto il proletariato del Nord, cioè il Partito Socialista del Nord. […] Con mia meraviglia incontrai prima la indifferenza, poi la ostilità sorda di quasi tutti i socialisti settentrionali»1.

All’università Salvemini ha come docente di Storia medievale e Storia moderna il professor Pasquale Villari, storico napoletano attento ai problemi del Meridione e più volte parlamentare. Villari trasmette a Salvemini la coscienza del valore civile dell’insegnamento e una visione della Storia indissolubilmente intrecciata all’impegno etico e politico. Si laurea in Lettere nel 1896 e inizia subito a insegnare, prima in una scuola media di Palermo e poi in un liceo di Faenza. Nel 1899 pubblica l’opera Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, segnalandosi come uno dei più promettenti storici italiani, e poco dopo ottiene la cattedra di Storia moderna all’Università di Messina.

È proprio a Messina che, il 28 dicembre 1908, Salvemini è colpito da un lutto immenso: nel disastroso terremoto che rade al suolo la città facendo ottantamila morti, Salvemini perde la moglie, i quattro figli e una sorella2.

Provato dal dolore, Salvemini lascia Messina e va a insegnare prima a Pisa e poi, dal 1911, a Firenze. All’Università di Firenze tra i suoi allievi, che Salvemini chiama «figlioli spirituali», vi sono i fratelli Nello e Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi, futuri antifascisti. Attorno a Salvemini si riunisce in breve tempo un gruppo di giovani studiosi uniti dall’amicizia verso il maestro e dall’impegno intellettuale per la libertà e la democrazia. Nel 1910 Salvemini lascia ufficialmente il Partito Socialista avendo «perduto ogni speranza di interessare i socialisti del Nord a nessun problema di giustizia che interessasse le classi lavoratrici meridionali»3.

Continua, però, la propria battaglia per una moralizzazione della vita politica e un miglioramento delle condizioni del Meridione denunciando la corruttela dei metodi elettorali nel Sud Italia e candidandosi senza fortuna nel 1913 a Molfetta con un programma di ispirazione socialista. Critica tenacemente la politica spregiudicata di Giolitti – definito in un celebre scritto del 1910 «il ministro della malavita» – e la dispendiosa campagna militare in Libia, di nessuna reale utilità per il benessere del paese. Nel 1911, inoltre, Salvemini fonda il settimanale «L’Unità», dalle cui pagine si batte per l’introduzione e l’effettiva applicazione del suffragio universale e per la creazione di un partito meridionalista e liberale.

Allo scoppio della prima guerra mondiale Salvemini, favorevole all’intervento bellico che ritiene necessario per completare l’unificazione italiana, si arruola volontario e partecipa con il grado di tenente ai combattimenti sul Carso.

Al termine del conflitto – deluso, come molti altri italiani, dagli esiti dei trattati di pace – si candida in una lista di reduci, Combattenti di Terra di Bari, e viene finalmente eletto deputato. L’esperienza parlamentare, però, dura poco poiché Salvemini si trova ben presto in profondo disaccordo con l’ex socialista Benito Mussolini e ritorna a dedicarsi completamente all’insegnamento. All’avvento al potere di Mussolini nel 1922 Salvemini è uno dei pochi a denunciarne subito la pericolosità e a opporsi in modo deciso al regime. Quando nel 1924 viene ucciso il deputato socialista Giacomo Matteotti, Salvemini si espone personalmente e risolutamente attraverso un articolo pubblicato sul periodico clandestino «Non mollare» e viene arrestato.

Il processo desta scalpore, soprattutto all’estero, e viene molto seguito dalla stampa; quando a Salvemini è concessa la libertà provvisoria, gli squadristi fiorentini iniziano a minacciarlo fisicamente di morte. Consapevole del pericolo, approfitta di un’amnistia per i reati di opinione e, ormai libero, sceglie di abbandonare l’Italia; grazie all’aiuto di alcuni esuli antifascisti si rifugia prima in Francia e poi in Inghilterra.

Dall’esilio invia le sue coraggiose dimissioni al rettore dell’Università di Firenze, affermando che l’insegnamento si è ormai ridotto «a servile adulazione del partito dominante oppure a mere esercitazioni erudite estranee alla coscienza morale del maestro e degli alunni» e pertanto «il dovere di lealtà [verso gli studenti] prima che di coerenza e di rispetto verso me stesso» gli impone la via dell’esilio4.

Nel 1926 il regime fascista lo punisce revocandogli la cittadinanza e confiscandogli i beni; Salvemini, intanto, si muove tra Inghilterra, Francia e Stati Uniti tenendo vari cicli di conferenze per far conoscere la reale situazione politica italiana. All’estero, infatti, il docente pugliese gode di grande stima non soltanto per il suo impegno antifascista ma anche per il valore della sua ricerca storica, considerata sempre pungente e accurata. Nel 1929, di ritorno dall’America, si incontra a Parigi con i fratelli Rosselli, suoi ex allievi; con loro fonda il movimento Giustizia e Libertà, un’organizzazione antifascista senza una connotazione politica specifica dedita alla distribuzione di stampa clandestina sul territorio italiano. Nel 1933 Salvemini si trasferisce stabilmente negli Stati Uniti (ottenendo anche la cittadinanza americana) e ottiene la cattedra di Storia della civiltà italiana alla prestigiosa Harvard University. A Harvard (Massachusetts) Salvemini continua a stimolare il risveglio civile degli italiani e fonda la Mazzini Society, un’associazione antimonarchica che sostiene economicamente l’espatrio degli antifascisti italiani e lavora per concretizzare l’ideale di un’Italia laica e repubblicana.

Nel 1949, come aveva promesso nella lettera di dimissioni, riprende il proprio posto all’Università di Firenze: è una grande vittoria morale per Salvemini, che però non smette di denunciare i mali e le inefficienze del sistema politico italiano. Muore a Sorrento, dove si era trasferito negli ultimi anni, il 6 settembre 1957.

 

1- Cfr. G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, cit., pp. XX-XXI.

2- Mussolini – all’epoca socialista – invia ai familiari di Salvemini, credendolo morto, un telegramma di condoglianze: «Con Gaetano Salvemini scompare una delle più belle figure del socialismo italiano». Dopo poco più di dieci anni i due si ritroveranno su posizioni diametralmente opposte.

3- Cfr. G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, cit., p. XXIII.

4- Al termine «esule» Salvemini preferisce quello di «fuoriuscito», utilizzato dal regime fascista in senso dispregiativo per indicare gli oppositori che abbandonano l’Italia.

Significato e fortuna dell’opera

Gli Scritti sulla questione meridionale raccolgono l’ampia produzione di Salvemini sulla tematica del Meridione e offrono un contributo ancora oggi imprescindibile per la comprensione dei problemi del Sud Italia. La cosiddetta «questione meridionale» – nata all’indomani dell’unificazione nel 1861 e aggravata da vari provvedimenti del governo centrale (forte imposizione fiscale, dazi doganali e tariffe protezionistiche, leva obbligatoria…) – ha rappresentato un argomento cruciale per la storiografia italiana su cui si sono confrontati nel corso degli anni molti studiosi e uomini politici (Sidney Sonnino, Giustino Fortunato, Benedetto Croce, Luigi Sturzo, Francesco Saverio Nitti, Antonio Gramsci ecc.).

Migranti a Ellis Island, 1892.

Sul finire dell’Ottocento la maggior parte delle opere dedicate alla situazione dell’Italia del Sud ritenevano che la disparità economica tra Nord e Sud fosse imputabile a una inferiorità intrinseca degli abitanti del Mezzogiorno – ritenuti «per natura» corrotti, indolenti e ignoranti – o a fattori naturali come il clima o la razza. Salvemini, invece, rigetta con fermezza ogni tipo di giustificazioni positivistiche e deterministiche (perfino al giorno d’oggi non del tutto abbandonate) e afferma: «Nego assolutamente che il carattere dei meridionali, diverso da quello dei settentrionali, abbia alcuna parte nella diversità di sviluppo dei due paesi. […] Spiegare la storia di un paese con la parola razza è da poltroni e da semplicisti»1.

Utilizzando indicatori e dati economici, l’analisi lucida e lungimirante di Salvemini individua nel comportamento della classe governativa – volto a favorire gli interessi del Nord – e in quello della piccola borghesia meridionale – poco interessata a cambiare realmente la situazione – i responsabili della miseria del proletariato del Sud.

Per Salvemini, inoltre, lo sviluppo economico e intellettuale del Meridione non è un elemento secondario per la crescita dello Stato unitario, bensì costituisce il punto di partenza per lo sviluppo di tutta l’Italia, la «condizione pregiudiziale per la trasformazione dell’Italia in un paese civile».2

È necessario pertanto, secondo Salvemini intraprendere profonde riforme politiche in quanto «la conquista della libertà politica è la base di qualunque altra riforma »3; la lotta alla corruzione e l’effettivo esercizio del diritto di voto per tutti rappresentano il primo passo verso il rilancio della vita politica meridionale. L’ideale cui aspira Salvemini è quello di un socialismo riformista e liberale che si ponga come una terza via tra capitalismo e socialismo tout court: «Noi riteniamo ancora che libertà economica e movimento socialista debbano e possano, almeno in questo periodo di transizione, integrarsi a vicenda e funzionare reciprocamente da correttivo, in modo da impedire che tanto la libertà illimitata dei capitalisti, quanto l’azione egoistica di categoria degli operai organizzati possano per vie diverse condurre a privilegi e monopoli d’individui e di gruppi»4.

Attraverso gli Scritti Salvemini offre anche una testimonianza diretta del rapporto tra storiografia e coscienza morale e politica; Salvemini, infatti, così come Bloch prima di lui, sente fortemente l’impegno e la responsabilità dello storico verso il proprio tempo e concepisce la Storia come uno strumento per l’educazione e la sensibilizzazione della società. In definitiva, gli Scritti, nonostante l’asciutta e spesso tagliente prosa giornalistica, non mancano di trasmettere il profondo affetto e l’empatica comprensione dell’autore verso i suoi conterranei e dimostrano una conoscenza diretta e concreta delle problematiche meridionali.

 

1- Cfr. G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino, Einaudi, 1955, p. 60.

2- Cfr. G. Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, Milano, Feltrinelli, 1963, p. XIII.

3- Cfr. Ivi, p. 98.

4- Cfr. M. Degl’Innocenti (a cura di), Carlo Rosselli e il socialismo liberale, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1999, p. 35.

Le conseguenze del terremoto di Avezzano del 13 gennaio 1915.

Struttura dell’opera

L’opera è una raccolta di cinquantacinque scritti composti da Salvemini tra il 1896 e il 1945 aventi come tema la «questione meridionale» e pubblicati su diverse riviste dell’epoca («La Critica Sociale», «L’Avanti! », «La Voce», «L’Unità»…).

Il primo scritto della raccolta, intitolato Un Comune dell’Italia meridionale, risale agli ultimi mesi del 1896 e analizza la situazione della città natale di Salvemini: Molfetta.

«I paesi dell’Italia meridionale si possono dividere in due grandi classi: paesi di grande e paesi di piccola proprietà. I primi occupano l’interno della penisola e sono a coltura estensiva e danno i deputati agrari, la banda vile e abbietta dei deputati eternamente ministeriali. I secondi si trovano lungo la costa e fasciano quasi la penisola di una cintura larga in media una ventina di chilometri, spesso interrotta dalla grande proprietà: sono a coltura intensiva e danno deputati di tutti i partiti; se deputati meridionali d’opposizione vi sono, e specie d’opposizione radicale, vengono da questi paesi. Fra i paesi di piccola proprietà tengono certamente il primo posto quelli della costa pugliese da Barletta in giù. A distanza quasi eguale da Barletta e da Bari si trova Molfetta. La popolazione è di 37000 abitanti e può dividersi all’ingrosso in tre categorie: marinai, cittadini e contadini. Su 10000 maschi superiori ai quindici anni, circa 3000 sono marinai; 4000 cittadini; 3000 contadini. Elettori iscritti 2522»5.

Il problema del Meridione è per Salvemini «triplice»; tre malattie, infatti, affliggono il Sud Italia e ne impediscono lo sviluppo economico, morale e intellettuale. La loro diversa origine – le prime due risalgono all’Unità d’Italia – implica, inoltre, che siano necessari interventi differenziati per «curarle».

«La prima malattia non è un privilegio del solo Meridione, ma è comune a tutta l’Italia; in questo, almeno in questo, tutti gl’Italiani sono davvero fratelli. È la malattia dello Stato accentratore, divoratore, distruttore. […] La seconda malattia è l’oppressione economica, in cui l’Italia meridionale è tenuta dall’Italia settentrionale. La spedizione garibaldina fu per la maggioranza dei benpensanti settentrionali un atto di conquista vera e propria. Il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti, quando entrarono a far parte dell’Italia unita. […] La terza [invece] è antichissima ed è tutta speciale del Mezzogiorno. È la struttura sociale semifeudale, che è di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale un anacronismo; che mantiene il latifondo con tutte le sue disastrose conseguenze economiche, morali, politiche; che impedisce la formazione di una borghesia con idee e intendimenti moderni; che permette solo la esistenza di una nobiltà fondiaria ingorda, violenta, prepotente, assenteista; di una piccola borghesia affamata […] e finalmente di un enorme proletariato, oppresso, disprezzato da tutti, privo di qualunque diritto, servo nella sostanza se non nella forma»6.

In un articolo del 1904, I socialisti meridionali, Salvemini rivolge le proprie critiche verso Giolitti. Il presidente del Consiglio – così come gli altri membri del governo – contribuisce a perpetrare il malcostume politico meridionale corrompendo i membri delle amministrazioni locali e tollerando (quando non proteggendo) le organizzazioni criminali.

«Nessun uomo politico ha mai sistematicamente, come Giolitti, adoperato fra le sue arti di governo la corruzione e l’asservimento politico e morale del Mezzogiorno. Per troppi settentrionali, anche fra coloro che più spesso fanno sfoggio di retorica unitaria, le popolazioni meridionali sono carnaccia da macello e da bordello. Giolitti pensa così, e agisce in conseguenza; ma agisce con quella tenacia, con quella brutalità, con quella mancanza di scrupoli, con quella ferrea rigidità, che costituiscono nella nostra vita politica sfiaccolata e oscillante la sua forza. In questi tre anni noi abbiam visto nei nostri paesi gli agenti del governo fare e disfare a capriccio le amministrazioni locali; abbiam visto la mafia, la camorra, la malavita, tutta la feccia sociale dei nostri paesi, palesemente protetta dal governo centrale, e sguinzagliata contro gli avversari dei deputati ministeriali; abbiamo visto massacrare senza pietà i nostri proletari ad ogni minimo accenno di disordine»7.

Alla vigilia della prima guerra mondiale la situazione del Meridione, descritta nell’estratto I dolori delle Puglie, è ancora drammatica; quando i raccolti non sono produttivi, infatti, la popolazione si ritrova sull’orlo della carestia e soltanto l’imponente tasso di immigrazione transoceanica consente di evitare una tragedia ancora maggiore. «Bisogna finirla col metodo di invocare pietà e misericordia nel momento in cui vi è la fame; ottenuto un boccone di lavori pubblici e addormentati gli stimoli più immediati, ricascare a terra a ruminare straccamente la propria miseria.

Annate cattive o pessime ce ne sono, più o meno, prima o poi, in tutti i paesi d’Italia. Solamente nel Mezzogiorno un’annata cattiva riduce immediatamente intere popolazioni alla fame e all’accattonaggio. Perché? Perché nel Mezzogiorno non esiste nessuna notevole accumulazione di capitale. Il Mezzogiorno d’Italia non fa economia. E non fa economia, perché il fisco pompa continuamente tutte le risorse della popolazione, e non lascia ai meridionali che gli occhi per piangere. Nel Nord – meno povero del Sud – qualche parte del reddito annuo sfugge alla barbarie fiscale; qualche tenue accumulazione capitalistica non manca nelle campagne; nelle annate di cattivo raccolto, si consumano le precedenti economie, e si ricomincia da capo. Nel Sud si ricava dalla terra appena tanto da mangiare e da pagare le tasse dirette e indirette. E alla prima difficoltà, tutto va per aria.»8

 

5- Cfr. G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, cit., p. 3.

6- Cfr. Ivi, pp. 32-35.

7- Cfr. Ivi, p. 222.

8- Cfr. Ivi, pp. 507-508. 1

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