Scritti sulla questione meridionale
Significato e fortuna dell’opera
Gli Scritti sulla questione meridionale raccolgono l’ampia produzione di Salvemini sulla tematica del Meridione e offrono un contributo ancora oggi imprescindibile per la comprensione dei problemi del Sud Italia. La cosiddetta «questione meridionale» – nata all’indomani dell’unificazione nel 1861 e aggravata da vari provvedimenti del governo centrale (forte imposizione fiscale, dazi doganali e tariffe protezionistiche, leva obbligatoria…) – ha rappresentato un argomento cruciale per la storiografia italiana su cui si sono confrontati nel corso degli anni molti studiosi e uomini politici (Sidney Sonnino, Giustino Fortunato, Benedetto Croce, Luigi Sturzo, Francesco Saverio Nitti, Antonio Gramsci ecc.).
Sul finire dell’Ottocento la maggior parte delle opere dedicate alla situazione dell’Italia del Sud ritenevano che la disparità economica tra Nord e Sud fosse imputabile a una inferiorità intrinseca degli abitanti del Mezzogiorno – ritenuti «per natura» corrotti, indolenti e ignoranti – o a fattori naturali come il clima o la razza. Salvemini, invece, rigetta con fermezza ogni tipo di giustificazioni positivistiche e deterministiche (perfino al giorno d’oggi non del tutto abbandonate) e afferma: «Nego assolutamente che il carattere dei meridionali, diverso da quello dei settentrionali, abbia alcuna parte nella diversità di sviluppo dei due paesi. […] Spiegare la storia di un paese con la parola razza è da poltroni e da semplicisti»1.
Utilizzando indicatori e dati economici, l’analisi lucida e lungimirante di Salvemini individua nel comportamento della classe governativa – volto a favorire gli interessi del Nord – e in quello della piccola borghesia meridionale – poco interessata a cambiare realmente la situazione – i responsabili della miseria del proletariato del Sud.
Per Salvemini, inoltre, lo sviluppo economico e intellettuale del Meridione non è un elemento secondario per la crescita dello Stato unitario, bensì costituisce il punto di partenza per lo sviluppo di tutta l’Italia, la «condizione pregiudiziale per la trasformazione dell’Italia in un paese civile».2
È necessario pertanto, secondo Salvemini intraprendere profonde riforme politiche in quanto «la conquista della libertà politica è la base di qualunque altra riforma »3; la lotta alla corruzione e l’effettivo esercizio del diritto di voto per tutti rappresentano il primo passo verso il rilancio della vita politica meridionale. L’ideale cui aspira Salvemini è quello di un socialismo riformista e liberale che si ponga come una terza via tra capitalismo e socialismo tout court: «Noi riteniamo ancora che libertà economica e movimento socialista debbano e possano, almeno in questo periodo di transizione, integrarsi a vicenda e funzionare reciprocamente da correttivo, in modo da impedire che tanto la libertà illimitata dei capitalisti, quanto l’azione egoistica di categoria degli operai organizzati possano per vie diverse condurre a privilegi e monopoli d’individui e di gruppi»4.
Attraverso gli Scritti Salvemini offre anche una testimonianza diretta del rapporto tra storiografia e coscienza morale e politica; Salvemini, infatti, così come Bloch prima di lui, sente fortemente l’impegno e la responsabilità dello storico verso il proprio tempo e concepisce la Storia come uno strumento per l’educazione e la sensibilizzazione della società. In definitiva, gli Scritti, nonostante l’asciutta e spesso tagliente prosa giornalistica, non mancano di trasmettere il profondo affetto e l’empatica comprensione dell’autore verso i suoi conterranei e dimostrano una conoscenza diretta e concreta delle problematiche meridionali.
1- Cfr. G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino, Einaudi, 1955, p. 60.
2- Cfr. G. Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, Milano, Feltrinelli, 1963, p. XIII.
3- Cfr. Ivi, p. 98.
4- Cfr. M. Degl’Innocenti (a cura di), Carlo Rosselli e il socialismo liberale, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1999, p. 35.
Struttura dell’opera
L’opera è una raccolta di cinquantacinque scritti composti da Salvemini tra il 1896 e il 1945 aventi come tema la «questione meridionale» e pubblicati su diverse riviste dell’epoca («La Critica Sociale», «L’Avanti! », «La Voce», «L’Unità»…).
Il primo scritto della raccolta, intitolato Un Comune dell’Italia meridionale, risale agli ultimi mesi del 1896 e analizza la situazione della città natale di Salvemini: Molfetta.
«I paesi dell’Italia meridionale si possono dividere in due grandi classi: paesi di grande e paesi di piccola proprietà. I primi occupano l’interno della penisola e sono a coltura estensiva e danno i deputati agrari, la banda vile e abbietta dei deputati eternamente ministeriali. I secondi si trovano lungo la costa e fasciano quasi la penisola di una cintura larga in media una ventina di chilometri, spesso interrotta dalla grande proprietà: sono a coltura intensiva e danno deputati di tutti i partiti; se deputati meridionali d’opposizione vi sono, e specie d’opposizione radicale, vengono da questi paesi. Fra i paesi di piccola proprietà tengono certamente il primo posto quelli della costa pugliese da Barletta in giù. A distanza quasi eguale da Barletta e da Bari si trova Molfetta. La popolazione è di 37000 abitanti e può dividersi all’ingrosso in tre categorie: marinai, cittadini e contadini. Su 10000 maschi superiori ai quindici anni, circa 3000 sono marinai; 4000 cittadini; 3000 contadini. Elettori iscritti 2522»5.
Il problema del Meridione è per Salvemini «triplice»; tre malattie, infatti, affliggono il Sud Italia e ne impediscono lo sviluppo economico, morale e intellettuale. La loro diversa origine – le prime due risalgono all’Unità d’Italia – implica, inoltre, che siano necessari interventi differenziati per «curarle».
«La prima malattia non è un privilegio del solo Meridione, ma è comune a tutta l’Italia; in questo, almeno in questo, tutti gl’Italiani sono davvero fratelli. È la malattia dello Stato accentratore, divoratore, distruttore. […] La seconda malattia è l’oppressione economica, in cui l’Italia meridionale è tenuta dall’Italia settentrionale. La spedizione garibaldina fu per la maggioranza dei benpensanti settentrionali un atto di conquista vera e propria. Il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti, quando entrarono a far parte dell’Italia unita. […] La terza [invece] è antichissima ed è tutta speciale del Mezzogiorno. È la struttura sociale semifeudale, che è di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale un anacronismo; che mantiene il latifondo con tutte le sue disastrose conseguenze economiche, morali, politiche; che impedisce la formazione di una borghesia con idee e intendimenti moderni; che permette solo la esistenza di una nobiltà fondiaria ingorda, violenta, prepotente, assenteista; di una piccola borghesia affamata […] e finalmente di un enorme proletariato, oppresso, disprezzato da tutti, privo di qualunque diritto, servo nella sostanza se non nella forma»6.
In un articolo del 1904, I socialisti meridionali, Salvemini rivolge le proprie critiche verso Giolitti. Il presidente del Consiglio – così come gli altri membri del governo – contribuisce a perpetrare il malcostume politico meridionale corrompendo i membri delle amministrazioni locali e tollerando (quando non proteggendo) le organizzazioni criminali.
«Nessun uomo politico ha mai sistematicamente, come Giolitti, adoperato fra le sue arti di governo la corruzione e l’asservimento politico e morale del Mezzogiorno. Per troppi settentrionali, anche fra coloro che più spesso fanno sfoggio di retorica unitaria, le popolazioni meridionali sono carnaccia da macello e da bordello. Giolitti pensa così, e agisce in conseguenza; ma agisce con quella tenacia, con quella brutalità, con quella mancanza di scrupoli, con quella ferrea rigidità, che costituiscono nella nostra vita politica sfiaccolata e oscillante la sua forza. In questi tre anni noi abbiam visto nei nostri paesi gli agenti del governo fare e disfare a capriccio le amministrazioni locali; abbiam visto la mafia, la camorra, la malavita, tutta la feccia sociale dei nostri paesi, palesemente protetta dal governo centrale, e sguinzagliata contro gli avversari dei deputati ministeriali; abbiamo visto massacrare senza pietà i nostri proletari ad ogni minimo accenno di disordine»7.
Alla vigilia della prima guerra mondiale la situazione del Meridione, descritta nell’estratto I dolori delle Puglie, è ancora drammatica; quando i raccolti non sono produttivi, infatti, la popolazione si ritrova sull’orlo della carestia e soltanto l’imponente tasso di immigrazione transoceanica consente di evitare una tragedia ancora maggiore. «Bisogna finirla col metodo di invocare pietà e misericordia nel momento in cui vi è la fame; ottenuto un boccone di lavori pubblici e addormentati gli stimoli più immediati, ricascare a terra a ruminare straccamente la propria miseria.
Annate cattive o pessime ce ne sono, più o meno, prima o poi, in tutti i paesi d’Italia. Solamente nel Mezzogiorno un’annata cattiva riduce immediatamente intere popolazioni alla fame e all’accattonaggio. Perché? Perché nel Mezzogiorno non esiste nessuna notevole accumulazione di capitale. Il Mezzogiorno d’Italia non fa economia. E non fa economia, perché il fisco pompa continuamente tutte le risorse della popolazione, e non lascia ai meridionali che gli occhi per piangere. Nel Nord – meno povero del Sud – qualche parte del reddito annuo sfugge alla barbarie fiscale; qualche tenue accumulazione capitalistica non manca nelle campagne; nelle annate di cattivo raccolto, si consumano le precedenti economie, e si ricomincia da capo. Nel Sud si ricava dalla terra appena tanto da mangiare e da pagare le tasse dirette e indirette. E alla prima difficoltà, tutto va per aria.»8
5- Cfr. G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, cit., p. 3.
6- Cfr. Ivi, pp. 32-35.
7- Cfr. Ivi, p. 222.
8- Cfr. Ivi, pp. 507-508. 1