Sommario
Leggere un classico
Una guerra civile

Una guerra civile


L'autore
Claudio Pavone

Claudio Pavone nasce il 30 novembre 1920 a Roma, dove compie tutti gli studi fino all’università. Si laurea in Giurisprudenza all’Università La Sapienza nel 1943 e, dopo l’annuncio dell’armistizio, si impegna immediatamente a livello politico con il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria.

Viene, però, arrestato quasi subito quando è scoperto a lasciare volantini del partito su alcune macchine parcheggiate, una delle quali risulta essere di proprietà del capo della Polizia segreta fascista. Questa imprudenza costa al giovane Pavone quasi un anno di prigione: dalla fine dell’ottobre 1943 è detenuto prima nel carcere romano di Regina Coeli e poi in quello di Castelfranco Emilia, da cui viene liberato nell’agosto del 1944.

Dall’Emilia Romagna Pavone si dirige verso Milano dove si riunisce alla Resistenza operando con il Partito italiano del Lavoro, un piccolo ma vivace gruppo della sinistra minoritaria non comunista.

Terminato il conflitto Pavone continua a collaborare con il Partito Italiano del Lavoro scrivendo sul quindicinale «La Verità», un periodico edito da reduci della Resistenza.

Contemporaneamente si iscrive di nuovo all’Università – laureandosi in seguito in Filosofia – per completare in modo organico un percorso di studi concluso in fretta e senza serenità a causa della guerra.

Dopo poco, però, abbandona la militanza politica giornalistica e si rivolge alla storia, iniziando a lavorare nel 1950 all’Archivio Centrale dello Stato Italiano, sito a Roma.

Qui Pavone apporta significativi miglioramenti riorganizzando la struttura dell’Archivio e progettando e dirigendo la creazione della Guida generale degli Archivi di Stato. Nel 1963 stende il testo di una legge per la tutela degli Archivi, sempre nella convinzione che tutti i documenti rappresentino dei beni culturali e come tali vadano salvaguardati.

Nel 1975 inizia a insegnare Storia contemporanea presso l’Università di Pisa, dove rimane fino al pensionamento nel 1991. In parallelo prosegue le proprie ricerche sulla Resistenza e sulla continuità degli apparati dello Stato italiano dal fascismo al postfascismo, che vedono il loro completamento, rispettivamente, in Una guerra civile e in Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato (pubblicato nel 1995).

Nel 1990 contribuisce alla fondazione della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (SISSCO), di cui diventa presidente dal 1995 al 1999.

Nel 2005 l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, lo ha insignito del prestigiosissimo Ordine al merito della Repubblica italiana, nominandolo Cavaliere di Gran Croce.

Saggio storico sulla moralità nella Resistenza

Cuneo, monumento alla Resistenza di Umberto Mastroianni.

Significato e fortuna dell’opera

Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza è un’opera che si pone come punto di riferimento imprescindibile per la storia contemporanea italiana e, in particolare, per gli studi sulla Resistenza. Come indica il sottotitolo – che doveva essere, in origine, il titolo del libro – l’opera è un saggio storico, cioè una riflessione sul valore dell’esperienza resistenziale, non una ricostruzione degli eventi della Resistenza (histoire événementielle).

L’obiettivo dell’opera è indagare se e quali siano state le convinzioni morali che hanno sostenuto i protagonisti della Resistenza nella scelta di combattere militarmente l’esercito tedesco e quello della Repubblica Sociale. Si tratta cioè, secondo le parole dell’autore, di «calare in contingenze storiche, presentatesi in prima istanza in veste politica, alcuni grandi problemi morali e, reciprocamente, di mostrare come le stesse contingenze storiche rinviassero necessariamente a quei problemi».

La ricerca sulla moralità impone di rivolgere l’obiettivo non tanto ai programmi politici, quanto agli uomini e «alle loro convinzioni morali, alle strutture culturali presenti in esse, alle preferenze emotive, ai dubbi e alle passioni sollecitate da quel breve e intenso giro di avvenimenti». La moralità rappresenta, infatti, per Pavone «il territorio sul quale si incontrano e si scontrano la politica e la morale, rinviando alla storia come possibile misura comune ».

La domanda fondamentale che si pone l’autore – partendo anche dalla propria esperienza biografica – è la seguente: «Su che cosa gli uomini avevano fondato il loro agire quando le istituzioni nel cui quadro erano stati abituati a operare scricchiolarono o si dileguarono, per poi ricostituirsi e pretendere nuove e contrapposte fedeltà?»1.

Un secondo interrogativo – stimolato e reso ancora più impellente dai drammatici anni del terrorismo – riguarda, invece, la liceità2 della violenza in una situazione di crisi profonda dell’apparato istituzionale dello Stato.

Nei giorni successivi all’8 settembre, infatti, gli Italiani si trovano – per la prima volta dopo vent’anni di regime – a dover scegliere a quale autorità affidarsi; è in questa situazione di anomia3 che molte persone decidono, anche talora in modo casuale o istintivo, di non attendere semplicemente l’arrivo dell’esercito americano (condizione che Pavone chiama di «attesismo») ma di impegnarsi personalmente per la liberazione della propria terra.

Per trovare una risposta a queste domande Pavone sottolinea «la necessità di interrogare i comportamenti dei protagonisti, per risalire da essi alle idee che li avevano ispirati, anche se formulate senza chiarezza e coerenza»4. L’opera, pertanto, non si basa solo sulle fonti tradizionali (documenti militari e politici, letteratura sul tema) ma utilizza in larga parte fonti meno note e meno studiate, definite da Pavone «basse»: memorie, lettere, autobiografie, testimonianze orali, canzoni…

Pavone, inoltre, fa ampio uso delle fonti letterarie, che ritiene sempre fondamentali per comprendere la storia. Così Una questione privata, Il partigiano Johnny e I ventitré giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio e Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo di Italo Calvino – rielaborazioni in forma letteraria di esperienze personali (entrambi gli scrittori furono partigiani impegnati, rispettivamente, in Piemonte e in Liguria) – diventano strumenti per sentir «parlare» i protagonisti della Resistenza. L’utilizzo delle fonti «basse», comunque, è sempre accompagnato da un’accuratissima analisi dei documenti d’archivio e della produzione storiografica resistenziale.

Il contributo maggiore dell’opera al dibattito storico contemporaneo è senza dubbio l’aver legittimato dal punto di vista storiografico l’espressione «guerra civile» riferita alla Resistenza italiana; la definizione, infatti, era stata utilizzata soltanto dalla pubblicistica di matrice neofascista e veniva fortemente rifiutata dagli antifascisti nel timore che «parlare di guerra civile conduca a confondere le due parti in lotta e ad appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione»5.

Pavone, invece, mostra con chiarezza e rigore come il dato – ovvio ed elementare, ma spesso occultato per i più svariati motivi – della comune cittadinanza (sia i fascisti sia i partigiani erano, infatti, Italiani), la convinzione di entrambe le parti di rappresentare l’Italia intera e la volontà di ristabilire la propria visione di Stato qualifichino i combattimenti avvenuti tra il 1943 e il 1945 come una «guerra civile ». Pavone, inoltre, rifiuta la definizione di guerra (o movimento) di «liberazione nazionale» poiché in questo modo si occulta «la parte di realtà che vide italiani combattere contro italiani»6.

La guerra civile tra Italiani, tuttavia, rappresenta solo una delle componenti della Resistenza, formata da tre diverse tipologie di guerre indissolubilmente intrecciate tra loro; per Pavone, infatti, nei venti mesi resistenziali si combattono anche una guerra patriottica e una guerra di classe.

La guerra patriottica è quella contro lo straniero invasore, cioè l’esercito tedesco (Pavone fa notare come l’esercito americano, pur avendo tecnicamente anch’esso invaso la penisola italiana, sia percepito come liberatore). Nella guerra civile, invece, il nemico è rappresentato dal fascista come figura politico-esistenziale, cioè in quanto sostenitore dell’ideologia del fascismo. La guerra di classe, infine, ha come obiettivo – dopo la cacciata dei Tedeschi e la sconfitta dei fascisti – la rivoluzione sociale in Italia e, pertanto, vede nella figura del «padrone » l’avversario principale.

Pavone sottolinea come non tutte le forze partigiane in campo abbiano combattuto tutte e tre le guerre (la guerra di classe, in particolare, risulta appannaggio delle brigate di ispirazione comunista) ma che nessuno ne ha affrontata una sola, dato che l’aspetto ideologico dell’antifascismo e della lotta contro il nazismo ha accomunato tutti i protagonisti della Resistenza.

Proprio per questo motivo nella copertina dell’opera sono riprodotti alcuni particolari del quadro cinquecentesco di Albrecht Altdorfer, La battaglia di Alessandro e Dario a Isso (333 a.C.), che nella tradizione occidentale simboleggia «lo scontro per antonomasia fra due civiltà, uno scontro epocale in un senso che si ripropone anche nella seconda guerra mondiale, dove è in gioco molto di più che la semplice sconfitta di un esercito»7.

Il nazismo e il fascismo rappresentano, infatti, due tentativi di risposta alla modernità e all’avvento della società di massa alternativi alla democrazia e alla libertà; lo scontro bellico tra dittature e democrazie diventa, quindi, soprattutto uno scontro di civiltà.

Pubblicata nel 1991, l’opera ha ottenuto subito – anche grazie alla capacità innovativa e al brio della prosa, uniti all’autorevolezza e al rigore della ricerca – uno straordinario successo editoriale, inconsueto per un’opera scientifica ma sintomatico dell’interesse ancora vivo per il tema drammatico e controverso delle scelte resistenziali.

 

1- Cfr. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. IX e X.

2- Liceità: caratteristica di ciò che è lecito, cioè consentito dalla legge o dalle norme morali (dal verbo latino licère, «essere permesso»).

3- Anomia: assenza di norme sociali e morali certe (dal sostantivo greco anomia, formato da a privativo, cioè «senza» e nòmos, cioè «legge, consuetudine»).

4- Cfr. C. Pavone, Una guerra civile, cit., p. IX.

5- Cfr. Ivi, p. 221.

6- Cfr. Ivi, p. 225.

7- Cfr. Sulla moralità nella Resistenza in «Quaderno di Storia Contemporanea», n° 10 (1991), pp. 19-42.

A Roma, un combattente del Comitato di Liberazione Nazionale punta il fucile contro un fascista.

Struttura dell’opera

L’opera non è organizzata da un punto di vista cronologico ma è suddivisa per temi, corrispondenti agli otto capitoli di cui è composta: La scelta, L’eredità della guerra fascista, Le vie di una nuova istituzionalizzazione, La guerra patriottica, La guerra civile, La guerra di classe, La violenza e La politica e l’attesa del futuro.

L’opera è, inoltre, corredata da un impianto note molto ampio e da due utili apparati per la ricerca: l’indice dei nomi di persona e quello dei nomi geografici. Nel primo capitolo, La scelta, viene indagato il tema del tradimento: «In una situazione di crisi istituzionale chi è il traditore? Chi rompe il giuramento che la stessa autorità ha violato, oppure colui che ubbidisce all’autorità fedifraga?»8.

«Il problema di moralità politica col quale gli italiani dovettero con più immediatezza misurarsi fu quello del tradimento. Tutte le parti in campo si scambiavano accuse di tradimento. Infatti “nessuno vuol passare per traditore”, ma tutti “sono anche fermamente convinti che i traditori esistono e che devono essere puniti nel modo più severo possibile: preferibilmente con la morte”. Nella situazione italiana seguita all’8 settembre le contrapposte accuse di tradimento rimbalzavano, si intrecciavano e si contaminavano in modo vario perché tutte, o quasi, avevano in sé qualche frammento di verità. E d’altra parte tutti erano posseduti da un “bisogno di grandi tradimenti” contro i quali rivalersi. […] Le persone tacciate di tradimento con la massima convergenza di giudizi, sia pur diversamente motivati, furono il re e Badoglio, che apparvero traditori ai tedeschi, ai fascisti, a larga parte dei resistenti, a un numero più o meno ampio degli internati in Germania pur reticenti, per comprensibili motivi, a manifestare questo giudizio. Agli Alleati essi apparvero almeno degli utili voltagabbana9, sembrando rinnovarsi l’antica prassi che vedeva i Savoia non concludere mai una guerra dalla stessa parte in cui l’avevano iniziata, a meno che, come anche si diceva, non avessero cambiato fronte due volte»10.

Il quarto capitolo, dedicato alla guerra patriottica, indaga anche la riscoperta del senso di patria tra i giovani combattenti della Resistenza.

«L’identità nazionale non poteva dunque essere ricostituita che scrollandosi di dosso il secolare destino che aveva fatto dell’Italia soltanto il palcoscenico dei grandi drammi storici recitati come protagonisti da altri popoli. Diventava allora naturale andare alla ricerca degli episodi che si prestavano a offrire della storia patria una visione meno deprimente. Luoghi comuni, retorica, riciclaggi di memorie e di stereotipi culturali, autonoma riflessione sul proprio passato come popolo circolano nell’ambiente resistenziale, e puntano soprattutto sul Risorgimento, le cui guerre erano state fra tutte le più italiane e antitedesche. La Resistenza trasse dal Risorgimento forza e insieme ambiguità, come conferma l’abusata espressione di «secondo Risorgimento». Più o meno tutte le posizioni politiche e ideologiche dello schieramento resistenziale, e gli stessi fascisti, si scelsero il proprio pezzo di Risorgimento cui riferirsi»11. Nel settimo capitolo Pavone analizza il grande problema etico della violenza e i vari interrogativi che esso suscita, soprattutto in una guerra non «codificata» come quella partigiana.

«La pratica corrente e lo spettacolo continuo dell’ammazzare, se potevano condurre alla triste assuefazione […], potevano anche spingere a interrogarsi sul senso del proprio rimanere in vita e ricondurre quindi con particolare immediatezza nell’ambito della propria esperienza il problema della vita e della morte […]. Parallelamente, la morte che ingiustamente si subiva poteva essere accettata come comunanza di destino con un numero tanto grande di propri simili. Questo sentimento è presente in molti resistenti di fronte al rischio della morte o alla sicurezza della condanna. «Penso oggi che tutta l’umanità soffre, che non sarei il primo e neppure l’ultimo a morire in questa guerra», scrive un giovane prima di tentare la fuga da un campo di addestramento in Germania.

[…] Il senso di questa sdrammatizzazione della propria morte violenta non nasce solo dal desiderio di lenire il dolore di chi resta […] va piuttosto collegato all’atteggiamento assunto di fronte all’esercizio della violenza quale sbocco ineliminabile della scelta operata in nome di ideali politici e civili dei quali è parte integrante proprio la rimessa in discussione della violenza come strumento e come valore»12.

L’ultimo capitolo, La politica e l’attesa del futuro, affronta il tema chiave del rapporto tra etica e politica, in cui confluiscono tutti i temi trattati nei capitoli precedenti.

«La Resistenza è stata […] uno di quei momenti in cui la politica si presenta come impegno tendenzialmente totalizzante, non nel senso che tutto sia visto, nella sostanza, come politico, ma in quello che molte esigenze importanti aspirano, nell’ansia di realizzarsi, ad assumere una forma politica e insieme ad andare oltre in nome del significato profondo che viene attribuito a un futuro intensamente desiderato. […] Nella Resistenza il rapporto fra la politica, intesa come scelta di fini e di valori e dei mezzi per praticarli, e la morale fu dunque centrale, perché l’ampliamento del campo da investire con il giudizio morale non poteva non coinvolgere in primo luogo la politica»13.

 

8- Cfr. N. Bobbio, Resistenza: le guerre erano tre,in «La Stampa», 15 ottobre 1991, p. 15.

9- Voltagabbana: colui che, per opportunismo, cambia con disinvoltura idee o appartenenza politica. Il sostantivo è un composto del termine «gabbana», che si riferisce a un tipo di soprabito utilizzato nell’antichità dai militari («gabbana» è un derivato dall’arabo qaba¯’, che indica una specie di tunica di lana per soldati). «Cambiare gabbana» significa, pertanto, cambiare divisa indicando, cioè, un cambio di schieramento.

10- Cfr. C. Pavone, Una guerra civile, cit., pp. 42 e 43.

11- Cfr. Ivi, pp. 179 e 180.

12- Cfr. Ivi, pp. 417 e 418.

13- Cfr. Ivi, p. 515.

L’ingresso dei partigiani a Milano, in corso Buenos Aires, il 25 aprile 1945.

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