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Protagonisti
Lo stile del potere - Introduzione Giolitti, l’uomo dalle mille sfaccettature Atatürk, lo zar della mezzaluna

Giolitti, l’uomo dalle mille sfaccettature


L'autore
Sergio Romano

Sergio Romano (1929) Giornalista e scrittore, ha iniziato la carriera diplomatica con incarichi presso diverse capitali europee, ricoprendo poi la carica di Ambasciatore in Unione Sovietica dal 1985 al 1989. Si è occupato inoltre di storia dell’Italia contemporanea. Fra gli scritti: La Russia in bilico (1989); Disegno della storia d’Europa dal 1789 al 1989 (1991); La pace perduta (2001); Vademecum di storia dell’Italia unita (2009); Il declino dell’Impero americano (2014)

Dopo aver lavorato vent’anni nell’amministrazione statale, Giolitti nel 1882 entrò in parlamento. Per due anni tacque, poi fece il suo primo discorso e la politica Italiana cambiò

Più che la forma, contenuto e buone idee

Non è facile tracciare un ritratto della personalità di Giolitti, uomo dalle tante sfaccettature e sul quale sono stati pronunciati molti giudizi anche discordanti.

Conosciamo poco della sua vita privata. Egli stesso, nelle Memorie della mia vita, scritte nel 1922 all’età di ottant’anni, dà poche informazioni sul proprio carattere; sono molto scarsi, per esempio, i cenni alla propria infanzia e gioventù; ma questi, proprio perché così misurati, diventano particolarmente significativi.

Giolitti, l’uomo dalle mille sfaccettature di Sergio Romano Giolitti confessa che al liceo non amava né la matematica né le «lingue morte» (ossia il greco e il latino); per questa ultima caratteristica egli ricevette le critiche di molti avversari che sottolineavano la sua scarsa erudizione e la quasi totale mancanza di citazioni letterarie nei suoi discorsi. In realtà Giolitti non si vergognava della propria asciuttezza nel parlare: ben più della forma e delle belle espressioni a contare erano, per lui, il contenuto e le buone idee. Un ulteriore segno della scarsa propensione di Giolitti per il sentimentalismo e la retorica è dato dalla descrizione, estremamente distaccata e poco enfatica, del primo incontro che egli ebbe con la «storia» allorquando i suoi zii lo portarono ad assistere alla partenza di Carlo Alberto verso il fronte nel 1848.

 

Non si sentiva erede del Risorgimento

Nella sua autobiografia sono riservati solo pochi cenni persino al re Vittorio Emanuele II e in genere a tutte le personalità risorgimentali, con una significativa eccezione per Cavour; questi era da Giolitti sentito come personaggio familiare, poiché la madre e i fratelli ne parlavano spesso. Giolitti non si sente erede del Risorgimento e degli uomini di azione che organizzarono le rivolte patriottiche dell’Ottocento. Nelle Memorie egli traccia invece una genealogia della propria famiglia rintracciando le proprie radici in una classe di amministratori e burocrati della «cosa pubblica»: sindaci, segretari comunali, procuratori generali, cancellieri di tribunali.

Nessun antenato illustre, ma una salda appartenenza borghese e democratica: nella famiglia di Giolitti erano rappresentate tutte le professioni di cui il Paese aveva più bisogno all’inizio dell’esperienza unitaria. Mentre la generazione del Risorgimento dava importanza prioritaria alle grandi questioni politiche e ideali – monarchia o repubblica, Stato e Chiesa, completamento dell’unità – Giolitti, di poco più giovane, attribuiva maggiore importanza ai problemi giuridici, amministrativi, finanziari.

Giolitti, presidente del Consiglio, nel proprio ufficio; fotografia da «L’Illustrazione italiana» del primo gennaio 1905.

Un tecnico «prestato» alla politica

Lo stile asciutto, avverso al sentimentalismo e incline alla praticità, caratteristico di Giolitti emerge anche dal fatto che, nelle Memorie, egli prende come data «storica» di inizio della propria formazione e maturità una «data amministrativa »: i primi di febbraio del 1862, quando il ministro di Grazia e Giustizia, Miglietti, lo chiamò a lavorare col grado di «aspirante al volontariato» presso il proprio ministero. Solo a partire da allora la sua vita merita di essere raccontata.

Neppure nei confronti di un evento importante come il trasferimento della capitale del regno da Torino a Firenze, che aveva causato grandi proteste nella città piemontese, Giolitti lascia trasparire alcun segno di enfasi patriottica: per lui, che pure sempre rimase legato al Piemonte, la capitale non era nient’altro che il luogo dove andare a sbrigare gli affari di governo e dove restare solo il tempo strettamente necessario. Giolitti entrò in parlamento nel 1882, dopo aver maturato un’esperienza ventennale nell’amministrazione statale, avendo quindi acquisito una grande familiarità con i conti e la finanza statale e possedendo una conoscenza approfondita dei meccanismi burocratici e legislativi della macchina statale.

 

Per due anni non prese la parola

Un altro fatto ci aiuta a capire che tipo di uomo fosse Giolitti: una volta entrato in Parlamento, per i primi due anni Giolitti non prese mai la parola. Partecipò a molte riunioni nei gruppi di discussione e dimostrò ai colleghi che conosceva perfettamente il bilancio dello Stato, ma si guardò dal prendere posizione su problemi generali. Nonostante la grande stima che nutriva verso Depretis, Giolitti sapeva che solo ponendosi come oppositore dell’esecutivo al potere avrebbe potuto crearsi un proprio ruolo politico e ambire a incarichi di governo. Come gli aveva scritto un collega, lui era ormai «l’avvenire e Depretis il passato». Giolitti raccolse infatti attorno a sé le varie correnti dell’opposizione e creò un fronte unitario per far cadere il governo. Per far sì che Depretis divenisse definitivamente il «passato», bisognava però costringerlo alle elezioni. L’anziano presidente del Consiglio avrebbe preferito aspettare l’autunno, per preparare meglio la campagna elettorale. Giolitti e il gruppo di minoranza, invece, cominciarono a spingere per affrettare il più possibile lo scioglimento delle camere ricorrendo all’ostruzionismo parlamentare: nelle sedute al Parlamento il gruppo capeggiato da Giolitti rendeva la vita impossibile al governo con continui interventi e pressanti critiche, tanto che Depretis, ad aprile, dovette cedere e venne sciolto il Parlamento.

A Depretis che, stanco, gli chiedeva: «Ma perché mi volete obbligare a fare le elezioni subito?», Giolitti, con scaltro candore, rispondeva: «Ma per non darle il tempo di prepararsi a combatterci!». Il piccolo «partito» di deputati vicini e fedeli a Giolitti ebbe un buon successo alle elezioni e diede vita a quello che negli anni a venire sarebbe stato il gruppo parlamentare di sostegno ai governi giolittiani.

Giolitti in una fotografia dell'epoca.

Una sorta di autoritratto

C’è un passo delle Memorie della mia vita nel quale Giolitti traccia un ritratto dello sconfitto Depretis; attraverso la figura del suo avversario politico tuttavia sembra delineare il suo ideale di politico, fornendo una sorta di autoritratto: «Egli era – scrive Giolitti – un uomo in cui era assai sviluppata una delle principali doti dell’uomo di governo: il buon senso. Non possedeva forse altre qualità eccezionali; conosceva bene l’amministrazione, sapeva esaminare a fondo le questioni, ed era uomo fermo e deciso. Era grande lavoratore, e lo si trovava sempre in mezzo a fasci di carte. Quando c’erano delle cose che non voleva risolvere, le metteva da parte, e ne aveva fatta una pila che saliva sempre più alta; e con quel suo fine sorriso ironico vi accennava come al reparto delle cose che vanno studiate lungamente. Non era affatto uno scettico o un cinico; odiava le vane declamazioni, ma s’interessava profondamente delle cose dello Stato, a cui dedicava tutta la sua attività ed energia. Combatteva apertamente gli avversari, ma era bonario, senza ombra di astio verso nessuno […] Quanto all’accusa che egli fosse un furbo, è proprio obbligatorio per un uomo di Stato essere un ingenuo?».

Per Giolitti, dunque, era importante che il politico avesse buon senso; fosse deciso e fermo nelle scelte; affrontasse i problemi con efficienza ma anche con ironia; nei confronti degli avversari non serbasse rancore e, soprattutto, avesse una dote utile per tutti, ma indispensabile per un uomo politico: la furbizia. Questo era ciò che ammirava in un politico, questo il suo stile. Lo stile del potere.

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