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Arte e Storia
Oggetti che tramandano storie I vasi ci raccontano la storia dei Greci L’importanza di Laocoonte

L’importanza di Laocoonte


Scoperta nel 1506, l’opera è l’embrione della collezione dei Musei Vaticani. Dal Rinascimento al XX secolo, ha costituito un punto di riferimento per gli artisti.

Il ritrovamento e la datazione

Il gruppo scultoreo raffigura il sacerdote e i suoi due figli mentre muoiono tragicamente perché non svelino la presenza di Ulisse nascosto nel colossale cavallo di legno davanti alla città di Troia. Il sacrificio di Laocoonte e la distruzione della città sono infatti necessari perché Enea fugga in Occidente e i suoi eredi arrivino a fondare Roma.

La statua era venuta alla luce casualmente, nella vigna di un tal Felice De Fredis, e la scoperta aveva messo a rumore tutta Roma. Papa Giulio II aveva mandato sul posto il suo architetto, Giuliano da Sangallo [...] «Quello è il Laocoonte, di cui fa menzione Plinio» avrebbe esclamato il Sangallo, nutrito di buone letture latine tra cui – evidentemente – la Storia Naturale del vecchio Plinio. L’autore romano conosceva la scultura per averla vista in casa di Tito, quando questi era ancora principe ereditario destinato a succedere come imperatore al padre Vespasiano [...].

 

Il gruppo del Laocoonte. Roma, Musei Vaticani.

L’affermazione categorica di un autore tanto importante e le indubbie qualità estetiche dell’opera fecero sì che il papa se l’assicurasse immediatamente. A partire da quel momento Giulio II, che già da cardinale possedeva antichità nel suo palazzo ai Ss. Apostoli, iniziò a raccogliere le opere che costituiscono il nucleo della collezione pontificia, sviluppatasi successivamente negli attuali Musei Vaticani. [...] Filippo Magi, l’archeologo che nel 1957 rimise al suo posto il braccio destro del sacerdote, miracolosamente riscoperto [...], riteneva che si trattasse di un’opera originale ellenistica della metà del II secolo a.C., ma questa posizione fu presto superata. Negli stessi anni in cui veniva condotto l’intervento di restauro, fu scavata la cosiddetta Grotta di Tiberio1 a Sperlonga, sulla costa del basso Lazio. Vi si scoprì, tra gli altri, un gruppo colossale con una mostruosa Scilla che assale la nave di Ulisse recante la firma di tre scultori di Rodi – Atenodoro, Agesandro e Polidoro –, gli stessi a cui Plinio attribuisce il Laocoonte.
Sull’impulso di questa scoperta è stata proposta una prima lettura alternativa, ampiamente argomentata da Bernard Andreae: i tre scultori sarebbero stati titolari di una bottega attiva per generazioni e specializzata in copie di altissimo impegno commissionate dallo stesso Tiberio. Anche il gruppo vaticano, dunque, sarebbe copia tiberiana di un prototipo bronzeo realizzato a Rodi attorno al 140 a.C.

[…] Infine l’ultima lettura è quella difesa da Salvatore Settis. […] Una serie di iscrizioni testimonia l’attività dei nostri scultori rodii e, pur con alcune cautele dovute al rischio di omonimie, a Rodi si può trovare testimonianza dell’attività almeno di Agesandro e Atenodoro prima dell’incursione di Cassio del 42 a.C., che mise in ginocchio l’economia dell’isola costringendo gli artisti a emigrare in Italia, mercato più promettente.
Dunque il Laocoonte andrebbe posto nei primissimi anni di Augusto, tra il 40 e il 20 a.C., in accordo anche con alcune osservazioni sulla tecnica edilizia dei basamenti in miniatura che sostenevano le sculture nella grotta di Sperlonga.

Oggetto di desiderio e di studio
[…] Dopo la scoperta, il Laocoonte fu ardentemente desiderato da Francesco I, re di Francia, che alla fine si dovette accontentare di un calco gettato in bronzo nel 1540 dal suo pittore Francesco Primaticcio. […] Tiziano ne trasse una famosa caricatura, […] Rubens lo studiò a fondo disegnandolo in maniera minuziosa; […] Bernini si ispirò al figlio minore per la figura del Daniele nella Cappella Chigi a S. Maria del Popolo a Roma.

Cambiavano le epoche, ma il Laocoonte veniva continuamente riletto alla luce delle nuove esigenze: difficile immaginare per esempio una differenza più grande tra l’ambiente degli umanisti della corte di Giulio II e quello degli illuministi francesi che stilarono l’elenco delle opere da portare a Parigi dopo il trattato di Tolentino2. Eppure la visione che ne aveva Napoleone, visitandolo nelle sale del museo del Louvre, aveva qualcosa in comune con la prospettiva rinascimentale. L’imperatore, infatti, continuava a considerarlo una sorta di testimone privilegiato, che proveniva dalla cultura greca passando per la città di Roma e approdava infine a Parigi.

[…] Solo in epoca contemporanea, con la messa in discussione della tradizione e con la rottura tra la modernità e il passato, i modelli classici perdono terreno e credito. Anche il Laocoonte ne soffrì, divenendo simbolo dell’aborrita accademia. Nonostante ciò la sua immagine riemerge a sprazzi con prepotenza. È il caso dell’artista russo Ossip Zadkine, che realizza un Laokoon nel 1930, scomponendolo secondo moduli ancora cubisti, ma mantenendo ben riconoscibile il braccio alzato su cui è avvinghiato un serpente. Oppure l’opera si definisce in contrasto, citazione irriverente e straniante come nel Laocoonte tormentato dalle mosche di Salvador Dalì (1965), in cui rimane ancora il braccio alzato del padre nel gesto anteriore al restauro del 1957. In ogni caso, sia pure perdendo l’antica centralità, quest’immagine resta un termine di paragone o un polo in opposizione al quale è necessario definire le proprie.

1 Imperatore dal 14 al 37 d.C.

2 Trattato sottoscritto nel 1797 tra la Francia e lo Stato pontificio. Molte delle opere, fra cui il Laocoonte, torneranno a Roma nel 1816 grazie alla missione diplomatica di Antonio Canova.

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