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La libertà non ha prezzo - Introduzione Don Luigi Sturzo, tutto Chiesa e politica Il prigioniero n. 7047: Antonio Gramsci I sette anni di Piero Gobetti

Il prigioniero n. 7047: Antonio Gramsci


L'autore
Massimo L. Salvadori

Massimo L. Salvadori (1936) è storico e professore emerito presso l’Università di Torino. Ha insegnato nella stessa università Storia contemporanea e Storia delle dottrine politiche e collabora con alcuni quotidiani. I suoi interessi sono prevalentemente rivolti alle vicende del Novecento e alle questioni riguardanti il sistema democratico e le sinistre. È stato eletto come deputato al Parlamento italiano nel 1992-1994. È membro dell’Accademia delle scienze di Torino. Tra le sue opere più recenti ricordiamo: La sinistra nella storia italiana, (1999); Le inquietudini dell’uomo onnipotente (2003); L’idea di progresso: possiamo farne a meno? (2006); Italia divisa: la coscienza tormentata di una nazione (2007); Democrazie senza democrazia (2009).

7047. Era il suo numero di matricola nel carcere fascista dove rimase per 11 anni, quasi fino alla sua morte. Fu tra i fondatori del Partito comunista italiano. È stato uno dei più importanti teorici marxisti del Novecento

La politica come passione

Antonio Gramsci nacque ad Ales (Cagliari), in Sardegna, il 22 gennaio 1891, quarto di sette figli.

All’età di tre anni, dopo una caduta, fu colpito dalla malattia che gli lasciò una malformazione fisica: la schiena andrà lentamente incurvandosi senza possibilità di guarigione. Nel 1905 iniziò a leggere la stampa socialista che il fratello Gennaro gli inviava da Torino e, frequentando il liceo Dettori di Cagliari, si appassionò alle iniziative politiche per l’affermazione del libero pensiero e a discussioni di carattere culturale.

Lettore vorace, in particolare di Croce e Salvemini, rivelò anche spiccatissime tendenze per le scienze esatte e per la matematica.

Ritratto fotografico di Antonio Gramsci, tra i fondatori del Partito Comunista.

Conseguita la licenza liceale, nel 1911 vinse una borsa di studio e si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. All’epoca il capoluogo piemontese era già una città industrializzata, dominata da imprese come la FIAT e la LANCIA, di cui Gramsci studiò i processi produttivi, la tecnologia e l’organizzazione interna.

Nel 1915 entrò nella redazione torinese dell’«Avanti!», organo del Partito Socialista Italiano, scrivendo non solo di politica ma occupandosi anche di critica teatrale e di note di costume nella rubrica «Sotto la Mole». Nel 1919, insieme a Tasca, Terracini e Togliatti, Gramsci diede vita al settimanale «l’Ordine nuovo» che si schierò per l’adesione del PSI all’Internazionale Comunista e in favore del movimento dei consigli di fabbrica.

La scissione di Livorno

Dopo la conclusione delle occupazioni delle fabbriche nel «biennio rosso», un senso di delusione e di sconfitta colpì gran parte del movimento operaio. Lo stesso Lenin disse: «Durante l’occupazione delle fabbriche si è forse rivelato un comunista?».

Il XVII Congresso del PSI apertosi a Livorno il 15 gennaio 1921 mostrò un partito ormai irrimediabilmente diviso. Alle due correnti tradizionali (i riformisti di Turati e i massimalisti di Serrati) s’erano aggiunti i comunisti guidati da Bordiga. Volarono invettive pesanti: i riformisti furono accusati di essere dei vili, degli inetti, praticamente dei complici del fascismo. Il 21 gennaio i comunisti, al canto dell’Internazionale, abbandonarono la sala del teatro Goldoni dove si stava svolgendo il congresso e si recarono in quella del teatro San Marco.

Qui dichiararono la costituzione del Partito Comunista d’Italia. Bordiga fu eletto segretario; Gramsci, Terracini, Greco e Misiano entrarono nel comitato centrale.

Gramsci inizialmente non aveva appoggiato l’idea della scissione, poiché riteneva che la classe operaia sarebbe stata indebolita dalla frammentazione. Furono probabilmente le durissime posizioni di Lenin verso Serrati a fargli cambiare idea.

La pagina iniziale del primo dei Quaderni dal carcere di Gramsci.

I Quaderni dal Carcere.

In carcere

Nel maggio del 1922 Gramsci partì per Mosca come delegato del Partito Comunista d’Italia nell’esecutivo dell’Internazionale. In Russia s’innamorò di Giulia Schucht che diventò sua moglie e dalla quale ebbe due figli.

Dopo la violenta campagna elettorale del 1924 e l’assassinio di Giacomo Matteotti, collaborò con gli altri partiti della minoranza parlamentare per una comune battaglia d’opposizione. Sempre nello stesso anno fondò un nuovo quotidiano, l’«Unità».

L’8 novembre del 1926, a seguito delle leggi eccezionali del regime fascista contro gli oppositori, Gramsci fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma, con gran parte del gruppo dirigente comunista. Al processo fu condannato a oltre vent’anni di reclusione. A partire dall’anno successivo, nel carcere di Turi, ottenne il permesso di scrivere in cella e iniziò la stesura dei Quaderni del carcere, testi ricchi di riflessioni personali, politiche e culturali. Ne avrebbe scritti in tutto 33.

Un «classico» del marxismo italiano

Negli anni successivi le sue condizioni di salute si aggravarono e, nel 1934, fu trasferito nel carcere-ospedale di Formia. Quando finalmente tornò in libertà nel 1937, per amnistia, dovette essere ricoverato in gravissime condizioni. Morì il 27 aprile.

Un «classico» del marxismo italiano

Particolarmente utile per comprendere la riflessione politica di Gramsci è l’analisi dello storico Massimo Salvadori, di cui proponiamo qui alcuni passi.

Quello che colpisce è che molti e diversi sono i giudizi sull’opera di Gramsci, sull’attualità minore o maggiore del suo pensiero, ma che tutti, senza eccezione, hanno individuato in esso un termine di confronto non eludibile. […] Si può parlare di un pensiero che ha assunto un valore «classico» nel senso che esso diede forma classicamente rappresentativa a una tendenza di importanza storica decisiva nel nostro orizzonte ideologico-politico.

[…] Il marxismo di Gramsci affondava le radici in Antonio Labriola […]; il suo socialismo, nelle lotte del proletariato torinese a cavallo della guerra mondiale. Dalla sintesi di queste componenti teoriche e pratiche aveva ricavato l’«idea forza» di una rigenerazione radicale della società che avesse nel proletariato il suo strumento attivo e nel partito rivoluzionario la guida politica e la coscienza storica. L’idea del mutamento totale dei rapporti fra i gruppi e le classi sociali, della dittatura liberatrice e rigeneratrice, rimase un asse permanente nell’azione e nel pensiero di Gramsci dal 1917 ai Quaderni del carcere. […]

Dopo aver creduto nel 1919-20 al primato dell’iniziativa rivoluzionaria delle masse, egli modificò, di fronte al riflusso del movimento rivoluzionario […], la gerarchia fra masse e partito attribuendo il primato a quest’ultimo secondo un più ortodosso leninismo. […]

[La ricerca che ha condotto nei Quaderni] ruota sempre intorno al progetto della dittatura del proletariato ma è innervata […] dalla consapevolezza che l’azione rivoluzionaria che aveva avuto successo nella Russia arretrata non poteva essere riproposta nella ben più evoluta società occidentale. Di qui il complesso ragionamento sulla necessità per il comunismo italiano di una strategia poggiante non su uno schematico scontro di classe risolutivo secondo il modello dell’ottobre russo, ma sulla costruzione di alleanze sociali e politiche che al momento della forza verso le classi avverse al proletariato unissero quello del consenso e della direzione nei confronti del «blocco storico» progressista e rivoluzionario (l’egemonia).

Proprio questa concezione doveva portare Gramsci a entrare in tensione e in opposizione con determinate scelte del comunismo internazionale, sempre più «stalinizzato», e del suo partito, sempre più subalterno al partito sovietico. Se egli si era pure schierato, dopo incertezze e inquietudini, con la linea staliniana, nel 1926 in contrasto con Togliatti pose dei limiti alla sua adesione ad essa, avvertendo e denunciando la pericolosità dei metodi staliniani. Così, in carcere, si oppose sprezzantemente alla teoria staliniana del «socialfascismo» e all’acritica aspettativa dominante nel Partito comunista di una imminente rivoluzione proletaria in Italia. […] E nel carcere conobbe la rottura con il suo partito, l’ostilità dei compagni, la solitudine dell’emarginato [e] arrivò a sospettare che il partito lo avesse abbandonato.

Delegati al XVII Congresso socialista: svoltosi a Livorno nel 1921, vide il distacco dell’ala estremista, che fondò il Partito Comunista d’Italia.

Uno dei primi numeri de «l’Ordine Nuovo», quotidiano del Partito Comunista Italiano nel biennio 1921-22.

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