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Il terremoto, una sciagura chiamata «u binidittu»


L'autore

Maria Rosaria Ostuni è Responsabile scientifico della Fondazione Paolo Cresci per la Storia dell’emigrazione italiana con sede a Lucca. Ha curato diverse raccolte di documenti riguardanti la storia economica e sociale dell’Italia fra Otto e Novecento. Fra gli scritti: La diaspora politica del Biellese (1995); Sogni e fagotti. Lettere e immagini dell’emigrazione italiana (con G.A. Stella, 2005)

Sciacallaggio, corruzione, mancata organizzazione e clientelismo dopo il terremoto che colpì la Calabria nel 1905. Un eccezionale documento della commissione reale d’inchiesta a futura memoria

Il terremoto e la commissione di inchiesta

Nel 1894 un forte terremoto colpì la Calabria e devastò l’Aspromonte. Siccome «il terremoto è un assassino che torna sempre sul luogo del delitto» undici anni dopo, nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1905, la terra tremò di nuovo, così come avvenne il 23 ottobre 1907; infine, il 28 dicembre 1908, le scosse rasero quasi al suolo Reggio Calabria e Messina.

La generosità dell’Italia si manifestò prontamente e furono subito organizzati gli aiuti. Il governo nominò dei funzionari che dirigessero la ricostruzione e la distribuzione dei beni e dei sussidi raccolti. Dopo neanche due mesi tuttavia si riscontrarono delle gravi irregolarità nella gestione del dopo-terremoto, che spinsero il governo a nominare una Commissione di inchiesta per indagare «sul modo come furono erogati nelle tre province di Catanzaro, Cosenza e Reggio, i fondi raccolti, e come si esplicò l’opera delle autorità a beneficio delle popolazioni colpite dal disastro ».

 

La relazione

La Commissione alla fine delle ispezioni preparò una lunghissima (400 pagine) e dettagliata relazione nella quale venivano messi in risalto gli abusi delle autorità sia centrali, sia locali.

In ogni paese si formarono dei comitati «allo scopo di distribuire equamente il denaro in sussidi individuali, le cibarie, gli indumenti»; ogni comitato era composto dal sindaco, dal presidente della Congregazione di carità, dal comandante dei carabinieri e dal parroco; queste persone conoscevano meglio di ogni altro le reali esigenze della gente e davano maggiore affidamento di giustizia e rettitudine. «Se non che tale fiducia venne, in generale, mal riposta.» Pesarono, infatti, sulla scelta di come distribuire gli aiuti, «le gare di partiti» e si usarono i sussidi del governo per coprire «spese che avrebbero dovuto far carico ai comuni. Si assegnarono a quel bilancio spese voluttuarie, in stridente contrasto con l’intento da raggiungere […] Si estinsero debiti di carattere pubblico con i fondi della carità».

Un’immagine delle macerie in una strada di Messina dopo il terremoto del 1908.

Le costruzioni provvisorie

La situazione era grave: in Calabria erano molte le «case o tuguri assai malamente costruiti», che furono molto danneggiate o interamente distrutte. Il primo provvedimento che i comitati presero fu quello di far costruire dei ripari provvisori per alloggiare i molti sfollati: «Furono costruite 3519 baracche in provincia di Catanzaro, 1513 in quella di Cosenza e 551 in quella di Reggio». Costruite le baracche, bisognava assegnarle e qui «l’azione dei comitati lasciò molto a desiderare. Le assegnazioni furono spessissimo oggetto di odi e ire partigiane; frequentemente il sindaco e le persone influenti del partito a lui devoto sceglievano per proprio conto le baracche meglio costruite e situate ». Inoltre le baracche furono lasciate nell’incuria e molte furono presto smantellate; la Commissione riteneva che una delle cause dello smantellamento fosse stato «il desiderio delle classi abbienti di rimettere in valore i loro fabbricati», cioè una speculazione ai danni delle persone più bisognose e senza tetto.

 

Il terremoto, «u binidittu!»

La Commissione criticava aspramente non solo l’operato dei singoli funzionari dei comitati locali, ma in genere tutta la popolazione calabrese. In quella regione infatti «si è finito per considerare il terremoto come una sorgente di eventuale lucro, anziché quale un disastro […] Molti in Calabria non mantengono con la dovuta cura i fabbricati, nella speranza che al sopraggiungere del cataclisma, presto o tardi, si possano avere facilitazioni per ripararli; onde il nomignolo scherzoso attribuito al terremoto: “u binidittu”, il benedetto!». Anzi, quando poi il terremoto arriva, si fa di tutto «per impressionare pubblico e autorità, cercando di esagerare i danni del disastro e di renderne più visibili e più toccanti le spaventose conseguenze».

Macerie a Messina; le vittime del sisma furono più di 70000.

La ricostruzione

Anche la fase di costruzione delle case non fu esente da speculazioni e molta gente cercò di arricchirsi il più possibile approfittando della disgrazia. «I prezzi dei contratti per la costruzione delle baracche furono altissimi, è vero; come altissimi furono i prezzi di quelli stipulati in seguito per le riparazioni delle case e quelli dei materiali e della manodopera.» I motivi della salita dei prezzi sono in parte ovvi e inevitabili: l’urgenza di costruire e ristrutturare in fretta le case fece salire la richiesta e il costo della manodopera; inoltre i soldi non erano immediatamente disponibili, per cui si dovettero stipulare contratti con pagamento a scadenza dilazionata, con conseguente aumento degli interessi.

Altri fattori però influirono sull’aumento dei prezzi: «Le popolazioni, credendosi dimenticate, si abbandonarono ad agitazioni incomposte […] Il Governo, cui giungevano continuamente telegrammi di protesta e di rimprovero dei Sindaci, notizie di dimostrazioni violente e di deliberazioni vibrate delle rappresentanze comunali e provinciali, altro non faceva che darne notizia ai Prefetti ammonendo che si intensificasse a ogni costo l’opera soccorritrice […] come sarebbe stato possibile, in tale stato di cose, discutere e trattare liberamente cogli impresari, che sapevano di potere profittare delle circostanze?».

La particolare situazione creatasi con il terremoto portò altri inconvenienti: per primo quello dei «muratori o manovali improvvisati. Data l’altezza dei salari, pochi furono quelli che non abbandonarono gli antichi mestieri», con la conseguenza che i lavori non vennero fatti bene. In questo modo i prefetti cercarono di placare le proteste e i disordini, tenendo le persone occupate, ma sortirono anche degli effetti negativi inattesi: «Fu quindi dovuto assumere personale avventizio, in prevalenza locale, sia per la direzione, sia, specialmente, per la sorveglianza dei lavori. Il meno che parecchi di loro abbiano potuto fare sarà stato di eccitare, anche indirettamente, i proprietari a chiedere sempre altre riparazioni, per allungare così il loro precario ufficio».

 

Responsabilità del governo

La Commissione non dimentica però le mancanze del governo centrale. La macchina degli aiuti non si mise subito in moto perché al ministero degli Interni c’erano molte assenze; «queste casuali vacanze non giustificavano tuttavia, in un ramo così importante di un pubblico ufficio, la mancanza di ogni disposizione di rilievo e il disordine».

In questa situazione, non avendo a Roma una visione esatta del disastro, i fondi si accumularono nella capitale e non giunsero in fretta dove servivano. Inoltre, non essendoci disposizioni dal ministero sulla distinzione tra indigenti e abbienti, molti ricchi approfittarono della situazione: «È a deplorarsi che anche qualche deputato e senatore abbia reclamato e ottenuto riparazioni alle case con il fondo della beneficenza… Le raccomandazioni, i biglietti e le lettere furono tantissimi».

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