Sommario
Economia e storia
Dal commercio degli schiavi a quello dello zucchero La schiavitù medievale Dolcezza a caro prezzo

La schiavitù medievale


L'autore

Raffaele Iorio (scomparso nel 2007), laureato in archeologia medievale, è stato uno studioso della storia della Puglia. Le sue opere principali sono: Quando sbarcavano i saraceni. Da Otranto a Vieste (2003) e I benedettini e lo splendore dell’anno Mille (2006).

Quanto costavano gli schiavi? Qualche volta venivano liberati?
Potevano formarsi una famiglia? Risponde un’interessante ricerca sul fenomeno della schiavitù in Puglia.

Schiavi e schiave nella Puglia medievale

Impiegati nei lavori dei campi, destinati a lavori artigianali o a cantieri edili di pubblica utilità, prescelte – se donne giovani e graziose – come strumento di piacere del legittimo padrone, gli schiavi erano parte integrante della società medievale.
Ne è testimonianza un’interessante ricerca sul fenomeno della schiavitù in Puglia, a cura di Raffaele Iorio. Dai documenti ritrovati (pergamene di casi giudiziari) non è raro l’accenno non solo a schiavi singoli, ma a gruppi di essi. È questo il caso di “servi e ancelle” che vengono affiancati come animali a “bestiame grosso e piccolo” oppure a “cavalli e cavalle”.
Quali i loro nomi? Raramente, ma pur fanno capolino. Ecco, fra i maschi, Arsone, Merenacio, Costantino, Silurino, Iannizzo, Iannulo, Adelperto, i piccoli Puzzolo e Urso, Giovanni Bello, Erpardo, Basilio, Simeone e un Apio di Nicolai.
Fra le donne: le anziane Risa e Draga, sei Marie, due Nege, Rusla e Milas, Negizza, Negala e Mele Nega, Privagna e Tichula, Radua, Rodosta e Romanella.
Spesso sono associate con i piccoli figli: una Lucia con Anna, un’altra Lucia con Tancredi, Setanna con Nicolula, Draga con Ducatella, Nega con Ioannella, Domenica con Teodorello, Dobzica con Pietro e Rosa.
Era dunque consentito a queste sventurate un minimo di dignità umana nel formarsi una famiglia? Ce lo fanno sperare non più di due casi, purtroppo: a Bari una Maria, nel 1088, ci consente di seguirla fino alla terza generazione, giacché appare “con sua nipote Mariothula Pulixena”; a Trani, nel 1242, troviamo un Bongiovanni che è marito di Draga.

Il prezzo di una vita
Quanto costava uno schiavo? Non è facile stabilirlo, poiché il prezzo varia a seconda delle epoche e dei luoghi.
Nel 1140 un tale ne compra “con i propri mezzi”, mentre nel 1230 una Kyra Maria ne acquista “con il ricavo guadagnato dal suo vino”. A Bari nel 1191 due schiave costano 3 once d’oro a testa (un’oncia era pari a 26,488 grammi d’oro), corrispondenti a 30 tarì (un tarì era pari a 0,888 grammi d’oro). Per avere qualche orientamento nei valori di mercato, si pensi che una vacca costava poco più di 20 tarì e un cavallo di tre anni ben 4 once. Dunque una schiava costava più di una vacca e meno di un cavallo.
Lo status dello schiavo era opportunamente codificato dalla giurisprudenza barese. Quando, nel 1127, tale Nicola Imbacato rivendica Lupone come proprio verna (schiavo di nascita, perché nato da una sua schiava Maria), Lupone viene liberato riuscendo a dimostrare che sua madre non era slava bensì bulgara. Alla fine il giudice, rifacendosi alla “dottrina” dei suoi “giustissimi” predecessori e dei colleghi “moderni”, precisa che si è schiavi per tre ragioni: il non essere cristiani, l’essersi macchiati di un reato e infine la bruta ragione etnica, ovvero “coloro che sono nati dalla stirpe degli schiavi”: sono cioè degli Slavi.

Donne, probabilmente serve della gleba, impegnate nella battitura dei cereali, miniatura tratta dal libro di Rut. New Yok, Biblioteca Morgan.

La cerimonia dell’affrancatura
Salvo pochi casi in cui il padrone liberava volontariamente lo schiavo, l’affrancatura avveniva per lo più nell’imminenza della morte del padrone, e pare attribuibile a motivi di coscienza. Raramente però l’affrancatura aveva effetto immediato, in modo tale da rendere subito “completamente libero e cittadino romano” lo sventurato.
La cerimonia, corredata “come è d’uso” dalla relativa “patente di libertà”, avveniva, quasi che fosse una sorta di rito propiziatorio, fra la data di morte e quella di sepoltura del padrone. E ci si atteneva a un rituale preciso. Affidato a un sacerdote, il liberto era preso per mano e fatto girare e rigirare intorno al “sacro altare”. E poi? Il poveretto, di solito, non poteva mica andarsene “libero fra tutti i liberi”. Doveva servire la moglie del defunto padrone o gli eredi per tre o addirittura cinque anni. Ma non basta. Vi erano anche clausole ricattatorie: se tentava la fuga o si metteva in saccoccia qualcosa, la «liberazione sarà invalidata e nullificata».

Ciò non toglieva che talora l’affrancatura si accompagnasse a una sorta di liquidazione, in denaro o in natura. A seconda dei casi, poteva trattarsi di oliveti o vigneti; di case, in proprietà o usufrutto; della compartecipazione agli affari del padrone, ma anche più modestamente, di “legname da letto” o del “materasso” del padrone (ma allora il servo dove dormiva?); di una bottega o di un “somaro con relativi finimenti” e un bel paio di “bisacce”, biancheria da letto o qualche abito civile.
In questi ultimi casi, parrebbe abbastanza poco, ma non dimentichiamo che siamo in una società che può imporre come tassa nientemeno che “una gallina”, magari accompagnata a “una focaccia”; così come un vescovo a Canne, che nel 1380, esige una volta all’anno “un gustoso cappone”!

La Chiesa di fronte alla schiavitù

Un’ultima questione: qual era l’atteggiamento della Chiesa di fronte alla schiavitù? “Non la condivideva, ma la accettava”, risponderebbero i medievali. In altri termini, la Chiesa vedeva la schiavitù come un effetto del peccato originale e quindi la tollerava e la considerava come una “punizione” causata dal comportamento malvagio dell’uomo.
Tuttavia la Chiesa invitava a trattare con giustizia e umanità gli schiavi, anche se raccomandava a coloro che amministravano le sue terre di non liberare gli schiavi appartenenti alle curtes ricevute in dono o in eredità. Questo perché, sostenevano i vescovi, “è ingiusto che gli schiavi godano la libertà, mentre i monaci lavorano la terra tutto il giorno”.
In ogni caso, un passo importante verso la liberazione degli schiavi fu il riconoscimento della validità religiosa dei matrimoni contratti dagli schiavi. Per questa via, anche senza scomparire, la schiavitù si trasformò: gli schiavi, entrando a far parte della comunità cristiana, vivevano di fatto, in molti casi, nella stessa condizione dei liberi più umili delle campagne occidentali.
Nelle città invece il fenomeno della schiavitù rimase in evidenza più a lungo: lo ritroviamo, ad esempio, nelle case dei signori delle ricche e popolose città dell’Occidente tardomedievale.

 

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