Sommario
Vita quotidiana
Riccioli al vapore e vita grama - Introduzione Nasce il rapporto tra madre e figlio così come lo conosciamo oggi Che cosa mangiavano i poveri? Così la Francia perse la battaglia della moda con l’Inghilterra Mulhouse come Londra, l’estrema povertà della classe operaia

Che cosa mangiavano i poveri?


Minestra e un tozzo di pane? Meglio le patate, la polenta o la pasta. Le nuove abitudini alimentari che si diffusero nell’epoca della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale.

Un’alimentazione scarsa

Che cosa mangiavano i più poveri nell’Europa della Rivoluzione francese e della prima rivoluzione industriale?

Le abitudini alimentari erano strettamente legate alle produzioni locali. Nella regione mediterranea, per esempio, si tendeva a coltivare il grano più che la segale e la frutta era molto più abbondante che nell’Europa settentrionale.

Allo stesso modo variavano le bevande: nell’Europa meridionale si beveva vino; birra al Nord; sidro in Bretagna e in alcune parti dell’Inghilterra.

In ogni caso si mangiava poco. L’alimentazione di base era costituita da minestre di verdura e pane. La carne era un cibo assai raro.

 

La scoperta della patata

Fu proprio la fame che favorì la straordinaria affermazione di due prodotti: la patata e il mais.

Forse la novità più importante nella dieta degli Europei all’epoca della rivoluzione industriale fu proprio l’introduzione della patata.

Nota sin dalla fine del XVI secolo, la patata cominciò ad avanzare lentamente in Europa, partendo dall’Irlanda. Verso la fine del Settecento, quando il prezzo del frumento aumentò in conseguenza dei cattivi raccolti, l’uso della patata si fece strada praticamente in tutta Europa. In Francia, per esempio, si diffuse in quasi tutte le regioni; in Germania, nel 1815, era già ampiamente coltivata.

Vincent van Gogh, I mangiatori di patate, 1885. Amsterdam, Van Gogh Museum.

L’Italia della polenta

In alcune aree europee e nell’Italia nord-orientale, la coltivazione del mais era già praticata alla fine del Cinquecento. Tuttavia, anche per questo prodotto, la diffusione più consistente si realizzò nella seconda metà del Settecento.

Nel 1778 Giovanni Battarra, un agronomo di Rimini, scrisse a proposito del mais: «Figlioli miei se vi foste incontrati nel 1715, che i vecchi hanno sempre chiamato l’anno della carestia, quando ancora non c’era l’uso di questo tipo di grano, avreste visto la gente morire di fame. Ora invece è piaciuto a Dio di introdurre questo tipo di grano, così se succedono annate scarse di frumento si può utilizzare un cibo che in sostanza è buono e nutriente».

In effetti, la polenta divenne la base dell’alimentazione dei contadini dell’Italia del Nord. Spesso, anzi, era l’unica cosa che mangiavano e questo li condannava a una malattia mortale. Il mais, infatti, non contiene la niacina, una vitamina indispensabile per l’organismo. Così i contadini che mangiavano solo polenta si ammalavano di pellagra, una malattia terribile che si manifesta con piaghe su tutto il corpo e conduce alla pazzia e alla morte.

 

«Mangiamaccheroni»

Un altro prodotto che si affermò nell’epoca della rivoluzione industriale fu la pasta. Nell’Italia centro-meridionale, questo alimento si impose con la stessa funzione delle patate o della polenta nell’Italia settentrionale.

Il consumo della pasta, in realtà, risale all’antichità: per esempio, gli spaghetti sarebbero stati inventati dai Cinesi 1000 anni prima di Cristo. Tuttavia la pasta restò a lungo poco diffusa: i siciliani verso il 1500 venivano definiti «mangiamaccheroni », proprio per sottolineare la singolarità della loro abitudine di cibarsi della pasta.

Il successo di questo alimento ha origine nella Napoli del Seicento. In quell’epoca i napoletani iniziarono a sostituire il consumo di carne con la pasta, tanto che nel Settecento strapparono ai siciliani il soprannome di «mangiamaccheroni ». All’epoca la pasta si mangiava senza nessun condimento o con un po’ di formaggio grattugiato. Sarà solo verso il 1830 che si inizierà a condirla con la salsa di pomodoro: un’idea geniale che ha reso «mangiamaccheroni» tutti gli Italiani.

Pietro Longhi, La polenta, 1740 ca. Venezia, Ca’ Rezzonico.

Pane di gesso e latte di cavolo

Le sofisticazioni alimentari erano una pratica già diffusa alla fine del Settecento, anche se conobbero un’impennata intorno al 1850. Già nel 1771, c’era chi notava: «Il pane che mangio a Londra è un impasto deleterio, a cui sono mescolati gesso, allume e ceneri d’ossa, dal gusto insipido e dall’effetto distruttivo per la salute. Non ho bisogno di soffermarmi a parlare di quel pallido e infetto miscuglio che chiamano «fragole », insozzate e sbattute da manacce unte di grasso in una ventina di cestini incrostati di sudiciume, e poi servite con il peggior latte, ispessite con la peggior farina per formare una pessima imitazione della crema. Il latte, prodotto da foglie di cavolo appassite e da feccia acida, stemperato in acqua calda, fatto spumeggiare con lumache ridotte a minuti frammenti, portato in giro per le strade in secchi scoperti».

 

Nella borsa della spesa

Alla fine dell’Ottocento anche l’Italia compì la sua rivoluzione industriale.

La condizione degli operai in una città come Torino non era certo florida, anche se senza dubbio migliore rispetto a quella dei loro colleghi inglesi o francesi di inizio secolo. Da un’inchiesta sappiamo che la maggioranza (63%) di questi operai (una famiglia media era composta da sei persone: due genitori e quattro figli) occupava abitazioni di due camere, e la minoranza (36%) alloggi di una sola stanza.

Il numero delle camere, man mano che i figli aumentavano, invece che crescere si riduceva, perché la diminuzione dell’affitto era la prima economia che si imponeva quando le altre spese aumentavano.

Le dimensioni del nucleo familiare, peraltro, non influivano in modo significativo sulla scelta dei cibi e delle bevande: un caso particolare era rappresentato dal vino, che la maggior parte delle famiglie non poteva permettersi più di una volta la settimana e solo poche persone potevano consumare tutti i giorni. Pane, minestra, latte e verdura formavano la base essenziale dell’alimentazione. Come in tutte le classi popolari, la carne rappresentava un lusso domenicale. In questo caso però più che per motivi di carattere economico, per un pregiudizio che risale alle origini contadine di questo proletariato urbano: nella Torino di fine Ottocento 1 chilo di pane costava quanto 3 etti di carne.

Quanto alle spese voluttuarie, l’unica voce era il tabacco, una spesa che si concedeva il 96% degli operai. A questa spesa voluttuaria regolare si dovevano aggiungere le bevute, anzi, le «sbornie», quando arrivava qualche guadagno straordinario, le gite in campagna e una «vestimenta nova» che per molti rappresentava uno dei sogni più alti e più lontani.

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