Le terapie punitive
Anche per la necessità di non sottrarre forze al combattimento, i medici trattavano i malati come simulatori o in modo sbrigativo per rimandarli al fronte. Bruna Bianchi sottolinea il carattere punitivo delle terapie messe in atto nei confronti degli afflitti da nevrosi.
L’aver concentrato le proprie energie e la propria attività sul recupero al servizio e su una rapida sparizione dei sintomi, condusse la psichiatria italiana a trascurare l’esplorazione del meccanismo psicologico che conduceva alla malattia. L’angustia della prospettiva terapeutica fece sì che la grande quantità di occasioni di studio e di osservazione che la guerra offriva, e sulla quale erano state riposte tante speranze di rinnovamento dei giudizi clinici, andasse perduta. Si rinunciò alla congruenza tra diagnosi e terapia poiché la terapia fu concepita in termini di sperimentazione di tecniche di dominio e di manipolazione. Nelle cliniche neuropsichiatriche costitute durante il conflitto alcuni medici cedettero alla tentazione di estendere le terapie dolorose ai soldati affetti da confusione mentale, nel tentativo di scuoterli dal torpore e dal negativismo. […]
Nel complesso la necessità di forzare la volontà del soldato, attraverso l’uso diretto della violenza, fu legittimato anche al di fuori delle cliniche neurologiche. Tra isteria, simulazione ed esagerazione – si affermò – i confini erano incerti, il giudizio si doveva basare su considerazioni di carattere morale e molti medici generici erano portati a vedere simulatori od esageratori in ogni soldato che presentava sintomi invalidanti e sostennero la necessità di infliggere dolore in base alle teorie che si stavano diffondevano nel mondo psichiatrico. I sanitari denunciati dai soldati per maltrattamenti e processati per abuso di autorità furono generalmente assolti, le terapie dolorose da essi praticate giustificate in base ai “nuovi dettami della scienza psichiatrica”.