La virago: una nuova idea di donna
Nel periodo rinascimentale viene meno l’idealizzazione della donna dispensatrice di virtù e di amore: alla dama si attribuisce anche la fortitudo, la forza, la determinazione, il coraggio, caratteristiche tipicamente maschili. Ecco quindi le virago (dal latino vir, «uomo»), vale a dire la donna che dimostra risolutezza e forza d’animo e che non si arrende di fronte alle difficoltà.
![Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1620. Firenze, Uffi zi.](/sites/default/files/styles/1_1_sm/public/img/p/more/virago.jpg?h=05290050&itok=aITAI20A)
Quella civiltà che con ammirazione definiamo del Rinascimento consiste nelle realizzazioni dell’alta cultura dal XIV sino al XVII secolo. A questa cultura elevata del potere, della bellezza e delle idee partecipò un ristretto numero di uomini e una quantità ancor minore di donne. Le poche che ebbero successo si guadagnarono la fama attraverso l’esercizio del potere o del mecenatismo, o in virtù del loro sapere e dei loro scritti (o per altre capacità). Nel conseguire questa fama, comunque, esse dovettero scontrarsi con la visione profondamente negativa delle capacità femminili che era propria delle figure maschili più autorevoli. Esse si guadagnarono un riluttante rispetto da parte di questi severi giudici che crearono, per definirle, un nuovo modello di esistenza femminile, alternativo a quello di Eva (la donna nella famiglia) o di Maria (la donna nel chiostro): questo modello è quello della virago asessuata, un ibrido di vergine e vecchia, un uomo-femmina pericolosamente abile: l’amazzone.
Questo modello può essere visto con maggior chiarezza in quelle donne che esercitano il potere, militare o politico, antica prerogativa dell’altro sesso. […] In realtà molte nobildonne nell’era feudale avevano spesso agito al posto dei loro mariti, quando questi erano assenti, amministrando o difendendo i loro domini. Ma in Giovanna d’Arco il notevole elemento di novità sta proprio nella motivazione autonoma che la spinge ad agire: ella non operò come sostituta di un potere maschile, ma in piena autonomia. Nello stesso secolo l’italiana Caterina Sforza fu un personaggio più tradizionale ma altrettanto coraggioso e indipendente. Prima accanto a suo marito, Girolamo Riario, e poi da sola, dopo l’assassinio di lui, ella difese con grande fierezza gli interessi della famiglia e le città di Imola e Forlì, per le quali fu disposta a sacrifi care persino i suoi sei figli. Alla fine, mentre comandava la difesa di queste roccaforti, venne sconfitta, forse violentata e condotta prigioniera a Roma da Cesare Borgia. Mentre queste due donne assunsero dei ruoli militari, esse non conseguirono però il potere. Solo pochissime donne, persino tra quelle delle più illustri famiglie nobiliari o reali, vi riuscirono. Le due maggiori eccezioni a queste regole furono l’italiana Caterina de’ Medici, vedova di Enrico II, re di Francia […] ed Elisabetta Tudor d’Inghilterra. Entrambe riuscirono a forgiare il modello rinascimentale del sovrano-donna; in esso si esprimeva l’ambiguità dei ruoli che ricoprivano. […] Però se la maggior parte delle donne delle classi dominanti non conquistarono mai il potere, alcune di loro riuscirono a condividere qualcuna delle prerogative della sovranità. Nel vibrante clima artistico e intellettuale del Rinascimento, e particolarmente in Italia, ciò vuol dire che esse esercitarono il potere del mecenatismo. Quelle donne che non governavano effettivamente né dirigevano con i loro eserciti le forze della distruzione, potevano tuttavia con la loro autorità e il loro denaro incentivare il pensiero e la cultura.