Sommario
Protagonisti
Fede e potere - Introduzione Il dramma privato di Lutero Carlo V, la gloria della sconfitta L’infaticabile Calvino Ignazio: ritratto di un duro Filippo II, «el Rey Prudente» Elisabetta, la regina vergine Il manager della carità

Ignazio: ritratto di un duro


Fondò l’ordine religioso più prestigioso e influente nella Chiesa della Controriforma, ma per tutta la vita si pentì della sua giovinezza piena di errori. Un uomo che non conosceva mezze misure.

Da paggio a eremita

Alla fine della sua vita, Ignazio di Loyola (1491-1556), il fondatore dell’ordine dei gesuiti, dettò il Racconto del Pellegrino, ovvero la sua autobiografia, nella quale così si esprime a proposito della sua giovinezza: «Fino a ventisei anni, fu un uomo dedito alle vanità del mondo, con grande e vano desiderio di conquistarvisi onore». Quella sua giovinezza dissipata gli causò in seguito profonde crisi di coscienza che lo condussero, come già Lutero, a disperare del perdono divino.

Ignazio di Loyola era nato ad Azpeitia, nei Paesi Baschi, da una famiglia di nobili proprietari terrieri. Nel suo futuro era previsto un beneficio ecclesiastico, ma finì per diventare paggio presso due nobili famiglie spagnole. Nel 1521, mentre un esercito francese minacciava Pamplona, il suo padrone duca Mandique de Lara lo inviò a reclutare uomini nelle province basche: la sua «carriera militare» durò solo sette giorni, poi fu gravemente ferito dai Francesi a una gamba e fatto prigioniero.

Rimandato al suo castello nativo, sopportò con pazienza sofferenze atroci, poiché gli si dovette ridurre la frattura: su sua esplicita richiesta si fece limare il pezzo d’osso che usciva dal ginocchio. La gamba riprese una forma normale, ma rimase più corta dell’altra, costringendo Ignazio a zoppicare per tutta la vita.

La convalescenza fu per lui occasione di una profonda meditazione, stimolata della lettura di libri religiosi: decise così di abbandonare lo stile di vita precedente.

Tra il 1522 e il 1523 si stabilì a Manresa, nei pressi del monastero benedettino di Montserrat, in Catalogna. Vivendo di elemosine, si dedicò a preghiere e rigorosi digiuni, si lasciò crescere unghie e capelli: pensava così di cancellare la sua vita passata, che gli causava grandi orrori e angosce. Ignazio si convinse però che era il diavolo a tentarlo in quel modo, e che le pratiche ascetiche gli avevano ormai fatto ottenere il perdono di Dio. Decise così di chiamare altre anime alla salvezza e volle recarsi in Palestina per convertire i musulmani (1523).

Le convinzioni cui approdò Ignazio erano dunque ben diverse da quelle di Lutero: dalle sue angosce, egli trasse un certo ottimismo circa la possibilità dell’uomo di ottenere la salvezza, valorizzando il ruolo della volontà umana e quindi della predicazione per salvare le anime. La sua concezione della santità non comprendeva l’umiliazione della carne, ma il controllo di sé per mettersi al servizio del Signore nel mondo: il santo è colui che sa conformarsi completamente ai piani divini, facendosi strumento della gloria di Dio.

Ignazio di Loyola consegna a papa Paolo III la Regola della Compagnia di Gesù perché l’approvi. Roma, Chiesa del Gesù.

A scuola tra i ragazzini

Prima di partire per la Terrasanta, Ignazio comprese che, per l’opera di predicazione cui intendeva votarsi, era necessaria un’adeguata preparazione teologica. All’età di 34 anni, così, tornò sui banchi di scuola per studiare il latino, in mezzo a ragazzi che avevano la metà dei suoi anni. Frequentò poi le università di Alcalá, di Salamanca e infine di Parigi, dove completò i propri studi (1533). Gli anni di studio furono anni anche di predicazione, che spesso mise in sospetto l’Inquisizione spagnola, diffidente verso quella strana fi gura di predicatore laico.

Fu a Parigi che il suo apostolato diede i primi frutti: attorno a lui si formò un gruppo di studenti che erano alla ricerca di una vita spirituale più profonda.

Il 15 agosto 1534 Ignazio e otto suoi compagni (tra cui ricordiamo san Francesco Saverio, poi celebre per la sua opera missionaria in Asia) fecero voto di castità e di povertà, impegnandosi a riprendere l’opera missionaria in Palestina o, qualora questo non fosse stato possibile, a porsi a disposizione del papa. Lasciata Parigi, Ignazio si diresse a Venezia, mentre i suoi discepoli si recarono a Roma per chiedere al papa l’autorizzazione a recarsi in Palestina.

Anonimo, Il giovane Ignazio in abiti militari, XVI secolo.

Insieme a Gesù, in sua compagnia

La guerra che in quegli anni opponeva le potenze cattoliche ai Turchi impedì al gruppo di Ignazio di recarsi in Terrasanta. Paolo III concesse invece loro l’autorizzazione a farsi ordinare sacerdoti e li invitò a dedicarsi all’assistenza dei poveri e all’insegnamento del Catechismo ai bambini di Roma.

Da queste esperienze maturò la scelta di dar vita a un ordine di chierici regolari, votato all’apostolato e dunque funzionale alle esigenze della Chiesa del tempo. Le regole del nuovo ordine vennero delineate nella Formula Instituti (1539) che costituisce una bozza della redazione definitiva delle Costituzioni, a cui Ignazio giunse solo dopo molti anni di lavoro (1551). L’istituzione della «Compagnia di Gesù» venne approvata da Paolo III con la bolla Regimini militantis Ecclesiae (1540). Il nome dell’ordine viene fatto risalire a una visione che Ignazio ebbe nel 1537, durante la quale vide che Dio «lo metteva con il Cristo, suo Figlio, in modo da non poterne affatto dubitare».

Vite parallele

Ignazio trascorse il resto della sua vita a organizzare e diffondere l’ordine, lavorando moltissimo. Scrisse circa 7000 lettere ai padri che si trovavano lontani dalla casa madre a Roma, e ciò significava Cina, Giappone, Filippine, America del Sud… E da tutti aspettava notizie, leggendo le loro lettere davanti alla comunità riunita, interessandosi ai dettagli più minuti.

Vite parallele

La Compagnia di Gesù formò uno straordinario spirito di corpo. Nessun ordine religioso richiedeva ai suoi membri tanta obbedienza al proprio superiore, che del resto aveva un ascendente eccezionale. Ignazio poteva imporre punizioni terribili a coloro che infrangevano la regola, sapendo quasi con certezza che sarebbero state accettate: lui stesso si sottoponeva sempre a dure pratiche ascetiche. Aveva un temperamento austero, rideva poco, tutt’al più sorrideva. Sapeva dosare severità e dolcezza: all’amico Francesco Saverio, inviato da solo a evangelizzare le Indie dopo che il compagno prescelto si era ammalato, Ignazio spiegò la situazione concludendo il discorso con un semplice: «È vostro compito ». Di fronte alla miseria altrui si commuoveva: curava i malati negli ospedali, trascorreva ore nell’infermeria della casa madre accanto ai confratelli malati. Coltivava la virtù dell’umiltà, ricordando la sua giovinezza piena di errori e ritenendosi indegno della carica di Generale dell’Ordine. Tanta umiltà era però di conforto per gli altri. Una notte, un novizio tormentato dal ricordo dei suoi sbagli, giudicandosi indegno di restare nella Compagnia, fece visita a Ignazio. Questi gli narrò molto semplicemente gli anni della sua gioventù, piangendo per il rimorso al ricordo dei suoi peccati. Il novizio ritrovò la pace dell’anima e decise di restare. Ignazio morì dopo una breve malattia nel 1566. Nel 1622 Gregorio XV lo proclamò santo.

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