Sommario
Protagonisti
Fede e potere - Introduzione Il dramma privato di Lutero Carlo V, la gloria della sconfitta L’infaticabile Calvino Ignazio: ritratto di un duro Filippo II, «el Rey Prudente» Elisabetta, la regina vergine Il manager della carità

L’infaticabile Calvino


«Predicava tutti i giorni della settimana, due volte la domenica, teneva lezioni di teologia tre volte alla settimana; assisteva alle sedute del Concistoro. Continuò in questo modo senza interruzioni fino alla sua morte.»

La triste vicenda del padre

Jean Cauvin (1509-1564) nacque a Noyon, nella regione francese della Piccardia. Il padre, un notaio al servizio dell’amministrazione vescovile locale, nell’intento di garantirgli buone prospettive, gli fece assegnare, fin dall’età di dodici anni, un beneficio ecclesiastico. Fu proprio grazie a queste risorse che Calvino poté seguire i corsi di fi losofia presso i prestigiosi collegi parigini, dove dominava l’influenza dell’Umanesimo cristiano. Successivamente, però, secondo i desideri paterni, abbandonò gli studi umanistici, che rimasero però il suo interesse fondamentale, per intraprendere quelli giuridici, che proseguì fino al conseguimento della laurea (1532).

Rimangono ignoti i motivi della sua conversione al protestantesimo. Forse influirono le tristi vicende del padre che venne allontanato dalla sua professione e scomunicato a causa di irregolarità nell’amministrazione. In qualità di scomunicato, alla morte, sopraggiunta nel 1531, il padre di Calvino fu seppellito in terra sconsacrata e il figlio dovette ripagare tutti i suoi debiti. Sta di fatto che dal 1534 Calvino non incassò più le rendite vescovili che gli erano state assegnate.

La Chiesa riformata di Ginevra

Abbandonata la Francia a causa della sua fede, Calvino si recò a Basilea, dove pubblicò nel 1536 l'Istituzione della religione cristiana. Si recò in seguito a Ferrara, dove sotto la protezione di Renata d’Angiò, moglie di Ercole II d’Este, si era raccolto un circolo di sostenitori della Riforma. Dopo un breve soggiorno a Parigi, decise di stabilirsi a Strasburgo: si trattava di un viaggio pericoloso, poiché erano riprese le ostilità tra Francesco I e Carlo V. Per questo Calvino preferì allungare il tragitto e passare per Ginevra (luglio 1536) dove intendeva fermarsi solo per una notte. Qui fu avvicinato da Farel, che lo convinse a restare in città, prospettandogli, in caso contrario, la collera del Signore stesso. Fu così che Calvino divenne pastore e predicatore della Chiesa ginevrina.

La vita a Ginevra non fu facile: nel 1538 i moderati, che avevano preso il potere, ingiunsero a Calvino e ai suoi seguaci di lasciare la città entro tre giorni.

Calvino riprese a viaggiare: prima Basilea, poi Strasburgo. Qui sposò la vedova di un anabattista, Idelette de Bure, che fu una sposa devota e fedele. Purtroppo il loro unico figlio morì, di due sole settimane. Idelette stessa morì nel 1549.

Ma nel frattempo a Ginevra i sostenitori di Farel avevano ripreso il comando della città: era l’estate del 1540. Calvino rifletté per un anno prima di accettare la loro richiesta e tornare a Ginevra.

Calvino giunse in città il 13 settembre 1541: questa volta si sarebbe fermato fino alla sua morte. Due mesi dopo, emanò le Ordinanze ecclesiastiche: nasceva così la nuova Chiesa ginevrina. Il suo successore, Teodoro di Beza, così descriveva l’infaticabile attività di Calvino: «Predicava tutti i giorni della settimana, due volte la domenica, teneva lezioni di teologia tre volte alla settimana; assisteva alle sedute del Concistoro. Continuò in questo modo senza interruzioni fino alla sua morte».

Giovanni Calvino poco prima di morire prende congedo da amici e collaboratori. Ginevra, Museo della Riforma.

Lavorare per l’onore di Dio

L’instancabile azione di Calvino può essere compresa alla luce non soltanto della sua personale determinazione, ma anche della dottrina da lui predicata. Secondo Calvino, Dio offre ad alcuni la salvezza, ad altri la rifiuta. Dio non solo prevede l’eterno destino di ciascuno, ma lo decide con un atto irrevocabile. Quindi, poiché il credente sa che la propria salvezza «poggia sull’eterno buonvolere di Dio» egli è indotto ad agire con energia ed entusiasmo. La predestinazione, quindi, non solo non chiude il singolo in una prospettiva fatalista, ma trasforma ogni credente in un combattente della fede, pronto a dedicarsi interamente alla missione cui il Signore l’ha chiamato. Ma qual è la missione cui Dio chiama gli eletti? Calvino non ha dubbi: «Lavorare per l’onore di Dio», far trionfare nel mondo la Sua divina sovranità, farsi strumento della Sua gloria, impegnandosi nella lotta per l’affermazione di un nuovo ordine improntato alla legge biblica.

Lo storico Bainton non esagera, quindi, quando afferma che «il calvinismo educò perciò una razza di eroi». La propria fede doveva essere testimoniata di fronte a tutti, con una condotta di vita senza difetti, come quella dei santi. Calvino non condivideva l’atteggiamento di coloro che, vivendo in uno Stato cattolico, praticavano di nascosto la propria fede, imitando Nicodemo che aveva visitato Gesù solo di notte. A questi nicodemiti Calvino indicava la via dell’esilio, l’unica che consentisse di vivere coerentemente la loro fede.

Ritratto di Calvino nel suo studio, opera di anonimo (XVII secolo).

La condanna di Servet

Nella Ginevra calvinista non c’era posto per coloro che non aderivano alla Chiesa, o si dimostravano tiepidi o superstiziosi. Il Concistoro, l’organismo creato da Calvino per controllare la disciplina dottrinale e morale della popolazione, interveniva comminando anche pesanti pene a coloro che si rendevano colpevoli di fronte alla Chiesa.

La vittima più illustre delle decisioni del Concistoro fu il medico spagnolo Miguel Servet, giudicato eretico e condannato al rogo nel 1553. Servet sosteneva – progettando un’unificazione delle tre religioni monoteiste: cristianesimo, ebraismo e islam – che la dottrina della Trinità era falsa e di ostacolo alla conversione di ebrei e musulmani. Nel 1547 inviò a Calvino la bozza di un nuovo scritto che andava preparando, nel quale sviluppava ulteriormente le proprie posizioni. Per tutta risposta Calvino lo denunciò all’Inquisizione di Lione che provvide immediatamente al suo arresto; ma mentre si preparava il processo lo spagnolo riuscì a evadere e, singolarmente, decise di rifugiarsi proprio a Ginevra.

Arrestato di nuovo, Servet venne quindi processato: durante il processo tenne un atteggiamento sprezzante – il che non aiutò la sua causa – ma la sua sorte era comunque segnata.

Secondo Calvino, infatti, Servet, negando la Trinità, bestemmiava Dio. La tolleranza nei suoi confronti sarebbe dunque equivalsa a complicità.

Le basi dottrinali

Uomini come Servet trovavano dunque in Calvino l’avversario più determinato. In verità, tutti i riformatori riconoscevano la necessità di porre delle limitazioni al dibattito dottrinale.

Nella condanna di Servet la Chiesa di Ginevra ricevette l’appoggio non solo delle Chiese sorelle svizzere ma anche del mite e umano Filippo Melantone. Tutti i riformatori condividevano questo problema: eliminata l’autorità del papa, su che cosa poggia l’autorità che stabilisce la retta dottrina? La difesa delle Chiese imponeva restrizioni: almeno il mistero della Trinità doveva essere mantenuto come essenziale per la fede cristiana. I ministri della Chiesa di Zurigo scrissero a Calvino: «Devi mostrare, in questo caso, fede e zelo. Poiché le nostre Chiese sono accusate di favorire l’eresia, la Provvidenza ti offre l’opportunità di liberare te e noi da questo ingiurioso sospetto. Sappi essere vigilante e attivo nel prevenire un ulteriore spargersi di questo veleno». Calvino non aveva probabilmente bisogno di questo incoraggiamento.

Sepolto nell’anonimato

Calvino non aveva un fisico robusto, si nutriva e dormiva poco, soffriva di diversi malanni, tra cui la tubercolosi che lo portò alla morte. Ma non si risparmiò: continuò a guidare la Chiesa di Ginevra, che a partire dal 1555 poté controllare senza problemi; curò la nascita e la formazione di altre comunità in Europa; scrisse migliaia di lettere ai suoi seguaci soprattutto in Francia.

Il 27 maggio 1564 morì. Temendo che la sua tomba diventasse meta di pellegrinaggi idolatri – proprio lui aveva scritto anni prima un libro contro il culto delle reliquie – dispose di essere condotto al cimitero senza discorsi né canti, il cadavere avvolto in un rozzo telo. Nessun segno fu posto sul luogo della sua sepoltura.

Condividi